Virginia Woolf a fumetti: intensità, poesia e colore

Pur non essendo un’esperta in materia di graphic novel, amo i libri illustrati e quando ho saputo di questa novità sono corsa subito a prenotarla dal mio libraio di fiducia: non potevo perdermi una biografia a fumetti di Virginia Woolf!

Credo che già basti questo scorcio tratto dalle prime pagine per dimostrare quanto i disegni e i colori siano suggestivi. La biografia inizia così, nel giorno della morte di Virginia, con queste tonalità cupe eppure splendenti e quella figura solitaria che cammina lungo la riva, a un passo dalle acque in cui scomparirà.

Sembra di vedere l’aria che muove l’erba e increspa il fiume, non vi pare?

Liuba Gabriele, giovane artista laureata all’Accademia di Belle Arti di Brera, ha realizzato un’opera molto elegante e delicata, in cui predominano colori vivi e corposi, dal rosso al verde e al giallo, sino al blu profondo, con testi essenziali e poetici che ben rievocano la personalità e lo stile di Virginia Woolf. Illustrazione dopo illustrazione, la vita della scrittrice viene ripercorsa attraverso le sue fasi salienti,  il ricordo delle persone care e perdute, la sorella Vanessa e il circolo di Bloosmbury, la creazione di alcuni dei suoi libri più famosi, e soprattutto i legami fondamentali con il marito Leonard e l’amante e amica Vita Sackville-West. Ho amato in particolare, nella parte finale, quegli ultimi sguardi di Virginia all’ignaro Leonard e la sorta di fatale consapevolezza che coglie Vita. Toccante, coinvolgente.

Come potete vedere in questa fotografia dove l’autrice in persona mostra il libro con la copertina completamente estesa, il lavoro grafico è davvero di notevole bellezza e lo rende un piccolo gioiello da collezione per chi ama Virginia Woolf. Può però essere un’occasione anche per chi non la conosce, un modo diverso di accostarsi alla sua figura e di cominciare a scoprirla.

Si legge velocemente ma resta nel cuore e negli occhi.

Scrivo questo romanzo febbrilmente. Il disegno si precisa rapido, feroce, fulgido. Sono concentrata, una freccia ben puntata, irrigidita, mentre questo formicolio mi attraversa. Sono lontanissima da ogni cosa, da Leonard, anche da te, Vita. Le parole elastiche, translucide, colorate, le parole sonore si agganciano le une alle altre, formano catene, formano maglie. E le impressioni preziosissime racchiudono il tutto, ciò che devo salvare, che sfugge, che vuol finire, che imbroglierò per sempre. Ti ho preso, ti ho catturato, in un giorno. Piango e rido.

Edizione 2021: Becco Giallo

Pagine 128

(Le immagini provengono dalle pagine Twitter e Instagram di Becco Giallo e Liuba Gabriele)

Cose che succedono la notte: inquietante come una sottile crepa nella porcellana

Lascia stare, non importa. Sono cose che succedono la notte.

Questo è il primo libro di Peter Cameron che leggo. È raro – anzi negli ultimi tempi decisamente impossibile- che io scriva un commento a un libro subito dopo averlo finito, ma in questo caso ho pensato che fosse fondamentale parlarne subito, per non smarrire la scia di confusa fascinazione che mi ha lasciato. È stato come ritrovarsi in un episodio di Twin Peaks.

Erano diretti in un posto ai confini del mondo.

Ci sono un uomo e una donna, non sapremo mai i loro nomi. Sono una coppia sposata e vengono da New York: in una notte nevosa arrivano in treno in un luogo lontano e sperduto, a quanto sembra nell’estremo Nord di un imprecisato paese nordico. Hanno affrontato questo lungo viaggio per un motivo ben preciso, ma quel che colpisce nell’immediato di loro è la profonda solitudine di entrambi. La malattia di lei, terminale, li divide: la donna è chiusa nella propria personale dimensione finale fatta di paura, rabbia e speranza, mentre l’uomo è disarmato e impotente, la ama senza sapere come comprenderla o aiutarla.

Sono cose che succedono la notte. Le persone spariscono, sempre che ci siano mai state.

Questo posto che hanno raggiunto, ai confini del mondo, assomiglia a un limbo, soprattutto l’hotel in cui soggiornano, che pare davvero uscito da una fantasia di David Lynch, popolato da personaggi pittoreschi dai comportamenti ambigui. Sono reali (si presume) ma mi hanno fatto pensare a fantasmi, che esistono solo dietro quelle porte, tra la neve, in giorni dalle notti lunghissime, e non possono, oppure non vogliono o non riescono ad andarsene. Una sorta di decadente, surreale purgatorio che gioca con la mente, in cui ci si può perdere, abbandonarsi.

L’uomo scrutò il proprio riflesso, che lo guardava con una fissità ancora maggiore, e per un istante perse il senso del proprio corpo e si chiese da quale parte dello specchio si trovasse in realtà.

Ecco, leggendo mi sono sentita proprio come il protagonista, il personaggio che più coinvolge. Come un insetto sotto un bicchiere, annaspa e sbatte contro il vetro, cercando risposte, rassicurazioni, un contatto umano, l’illusione di amare senza sbagliare, il sole prima che sparisca… Presto o tardi, tutti quanti sperimentiamo questo smarrimento esistenziale, il desiderio di uscire da noi stessi.

Vorrei sottolineare che, pur essendo una storia cupa e bizzarra, non è priva di speranza, ma questa speranza bisogna saperla rintracciare, interpretare. Dovete credere che l’unico ponte per andare via non sia crollato.

Consiglio la lettura quando fuori è buio. Che faccia caldo o freddo non conta, vi assicuro che sentirete comunque profumo di neve. Suggerisco anche musica di sottofondo, magari qualcosa di Angelo Badalamenti, cantato da Julee Cruise. Se poi avete delle tende rosse l’atmosfera sarà perfetta.

Non fatevi troppe domande. Salite sul treno. E immaginate che l’amore sia anche in un paio di guanti per scaldare mani gelide e in un dolce da mangiare, nascosto in tasca.

Una sottilissima crepa in un bell’oggetto di porcellana è più inquietante dell’oggetto in frantumi sul pavimento.

Edizione Adelphi agosto 2020

Titolo originale: What happens at night

Traduzione di Giuseppina Oneto

Pagine 241

Gotico americano: il sogno e la disillusione

Se almeno l’America di oggi non assomigliasse ancora così tanto al quadro di Grant Wood, American Gothic, facce bianche di vecchi impauriti che pensano di proteggere il loro mondo con un forcone, ma il loro mondo già non esiste più.

Oggi, mentre tutti si interrogano sull’esito delle elezioni americane, è il giorno perfetto per parlare di Gotico Americano che inizia nel 2016, proprio all’alba della vittoria di Donald Trump. Così come l’autrice Arianna Farinelli (che vive negli USA ormai da vent’anni) anche la protagonista, Bruna, ha lasciato da tempo l’Italia per New York e insegna scienze politiche in un college. Mentre sta per prendere il via l’era Trump, Bruna è a un punto di svolta della propria vita, costretta dagli eventi a mettere in discussione scelte, convinzioni, ambizioni e prospettive future. A partire, per esempio, dal matrimonio deludente con Tom, italoamericano proveniente da una famiglia di fervidi conservatori, che non si è  mai emancipato dal ruolo di figlio (lui, la sorella e la madre hanno gli stessi nomi dei personaggi di Un Tram chiamato desiderio di Tennessee Williams). Poi ci sono il lavoro e la carriera che non hanno dato i frutti sperati e il piccolo Mario, suo figlio, anima femminile imprigionata in un corpo maschile. E infine Yunus, uno dei suoi studenti, controverso e misterioso giovane afroamericano con cui ha intrapreso una relazione.

È l’amore incondizionato  che cerchiamo per tutta la vita. A volte lo troviamo ma non riusciamo a riconoscerlo. Altre volte non possiamo o non sappiamo riceverlo. Quasi mai riusciamo a donarlo. Io lo volevo da te. Tu da tuo marito. Tuo marito da sua madre.

Attraverso le vicende  private di Bruna e dei personaggi a lei legati, Arianna Farinelli affronta tanti temi importanti, dalla fragilità del sogno americano all’ipocrisia della mentalità conservatrice, dall’Isis alle differenze religiose, razziali e sociali, sino all’immigrazione e alla disforia di genere, quasi troppi argomenti, in un calderone che a volte perde un po’ di coesione e da cui emerge  un’immagine zoppicante e profondamente imperfetta degli USA. Se Tom risulta a tratti caricaturale, Bruna mi ha lasciata in bilico, ancora non ho deciso cosa penso del suo modo di vedere e affrontare le cose. Mi ha commossa invece Mario, già così consapevole del suo sentirsi femmina, indifeso in un mondo di adulti che lo rifiutano o lo accettano solo in superficie senza capirlo davvero, eppure tanto coraggioso, tanto se stesso. Anzi se stessa. E ho amato Yunus, il personaggio che per me è valso l’intero libro, con la storia migliore e più complessa.

Alla fine, era giunta la balena che mi aveva dato la caccia per tutta la vita. La stessa che aveva inghiottito mio padre. Sapevo che prima o poi sarei finito nel suo ventre, sotto tre strati di oscurità.

Il memoriale di Yunus è probabilmente la parte più avvincente del romanzo: dal destino crudele di suo padre sino al suo arruolamento nell’Isis, Yunus rappresenta il lato scomodo degli ideali americani, ricorda a Bruna di guardare al di là della sua bolla privilegiata, fatta di persone bianche e benestanti e di convinzioni fasulle e ipocrite. Tutto il suo percorso di vita è segnato dal colore della pelle e dalla mancanza di inclusione, di possibilità autentiche. Si potrebbe facilmente giudicarlo per l’adesione all’Isis ma l’autrice è molto abile nel costruire le sfumature dei suoi motivi.

Solo pochi capiranno che tutto questo è già accaduto: non è finzione ma verità storica e ancora una volta dalla storia non abbiamo imparato nulla.

Gotico Americano ha i suoi difetti, proprio come l’America che descrive, e probabilmente proprio per questo si tratta di imperfezioni inevitabili. Di certo fa riflettere, soprattutto su ciò che potremmo essere e su ciò che invece ci ostiniamo a rimanere. C’era una volta il sogno americano, poi, al risveglio, la disillusione.

Fuori la città si muoveva convulsamente come ogni giorno. Ma io e te eravamo fermi proprio come l’acqua del fiume quando le maree smettono di tormentarla.

Edizione gennaio 2020 Bompiani

Pagine 288

Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe: mai sottovalutare le donne, soprattutto se leggono

《Voi, signore, leggete uno strano assortimento di libri》 osservò James Harris.                              《Siamo uno strano assortimento di donne》

Il 31 ottobre non si può evitare di proporre una lettura da brivido e così oggi torno sul blog per raccontarvi quello che si può considerare a tutti gli effetti un libro horror. Orrore intelligente, attenzione, di quelli con vari sottotesti, metafore di concetti tutt’altro che soprannaturali. Immaginate dunque una sorta di crossover tra la serie tv Desperate Housewives e Le Notti di Salem di Stephen King: le protagoniste di Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe sono un gruppo di donne dalle vite ordinarie e mediamente ipocrite, che vivono in uno di quei tipici quartieri americani dove si può uscire senza chiudere a chiave la porta e ci si scambia ricette e inviti per il barbecue. Una pace apparente e fasulla in cui all’improvviso si insinua qualcosa di stonato, irrazionale, sinistro. Ma l’autore Grady Hendrix, nella prefazione, spiega cosa intendo molto meglio di me.

Con questo libro ho voluto mettere a confronto un uomo emancipato da ogni responsabilità, tranne i propri appetiti, e le donne le cui vite sono plasmate da una serie infinita di responsabilità. Ho voluto contrapporre Dracula a mia madre.

Esattamente. Devo dirlo, questa storia l’ha scritta un uomo ma gli uomini non ne escono bene. Dal mostro della situazione – il vampiro che si trasferisce nel quartiere – ai mariti delle protagoniste, gli uomini di Hendrix sembrano concentrati solo su se stessi, sui propri appetiti da soddisfare, siano essi sessuali, finanziari, di carriera. Pensano a lavorare, investire, perseguire il lusso, il successo, ne sono anche facilmente sedotti, e le loro donne vengono considerate accessori, le madri di famiglia che devono starsene a casa, pronte ad accudire coniuge, prole e anche suocera senza discutere. Se poi si mettono strane idee in testa ci sono sempre le pillole di calmanti.

Voi donne avete tutte una mente acuta, e so quanto sia difficile trovare stimoli intellettuali in un posto del genere. Aggiungete i libri malsani che leggete nel vostro club letterario ed ecco la ricetta perfetta per una sorta di isteria di gruppo.

Le nostre miti casalinghe sottovalutate hanno in effetti un club del libro, che si dedica soprattutto ai romanzi e ai saggi che ricostruiscono efferati delitti e casi di cronaca nera (vengono citati titolo famosissimi come Helter Skelter e A sangue freddo): sarà questo a spingerle a comprendere che sta accadendo qualcosa di spaventoso. Potrebbero fingere di non vedere, la tentazione è forte, ma invece sceglieranno di agire, di non arrendersi. Grady Hendrix, anche sceneggiatore, confeziona una trama brillante e ben calibrata, che dosa i momenti di dubbio e quelli di tensione, con almeno un paio di situazioni davvero horror. Più che paura, gli eventi generano in chi legge lo stesso senso di minaccia, incredulità, smarrimento (in alcuni casi disgusto) delle protagoniste. Il vampirismo è un pretesto per raccontare di una società che guarda dall’altra parte mentre i più deboli ed emarginati soccombono e che si lascia conquistare dal guadagno e dai privilegi. Ed è anche una riflessione sulla condizione delle donne, sulla loro forza e la volontà che le spinge a lottare per liberarsi degli stereotipi e dalle false etichette.

Piccola curiosità: l’autore ha all’attivo anche un romanzo di fantasmi ambientato in un punto vendita di mobili scandinavo, Horrorstör.

Insomma se siete in vena di brividi che fanno riflettere e vi piacciono le storie di coraggio e riscatto femminile, Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe è l’ideale per voi. E forse chissà vi verrà anche voglia di creare un club letterario: leggere fa bene!

Pensa che siamo una mandria di casalinghe perfette… Pensa che siamo come appariamo all’esterno: graziose signore del Sud. Lascia che ti dica una cosa… non c’è niente di grazioso nelle signore del Sud.

(Edizione luglio 2020 Mondadori

Traduzione di Rosa Prencipe

Pagine 456

La Ricamatrice di Winchester: le donne di Tracy Chevalier non si arrendono mai

A volte basta un filo a cambiare la trama.

Provo un affetto particolare per questo libro. Chi lo sa, forse se lo avessi letto in un altro momento mi avrebbe fatto un effetto diverso. Invece ha finito con l’essere il mio compagno fidato di diverse notti insonni durante il lockdown. E ricordo con piacere anche gli scambi di opinioni con chi me l’aveva consigliato. Se penso a La Ricamatrice di Winchester mi viene da sorridere.

Consideratemi un canovaccio ancora vuoto, senza punti da disfare.

C’è da dire che mi è piaciuta tanto la protagonista, Violet. Per gli standard dell’epoca in cui vive, tra le due guerre mondiali del secolo scorso, viene considerata una donna in eccedenza, nubile e difficilmente destinata a sposarsi. Ha perso il fidanzato nel primo conflitto bellico e, ormai vicina ai quarant’anni, il suo destino pare segnato: dato che il padre e un fratello sono morti e l’altro fratello è sposato con prole, ci si aspetta che tocchi a lei restare a occuparsi della madre, autoritaria e anafettiva. Ma questo è un romanzo di Tracy Chevalier e praticamente mai i suoi personaggi femminili fanno quello che il mondo si aspetta dalle donne.

Ma è questo che ci si aspetta da noi donne, no? Dobbiamo dare, dare, e aiutare gli altri, qualunque sia il nostro stato d’animo. È stancante e ingrato, a volte. Vorrei poter fare come te, salire sulla torre e non pensare ad altro, non sentire altro che il suono delle campane che vibra dentro di me. Penso che mi sentirei in Paradiso.

Non sempre sono stata d’accordo con lei, ma ho amato lo spirito ribelle di Violet. Che cade però si rialza, che spesso non può evitare di sentirsi in colpa anche se non dovrebbe. Perché a noi donne capita, il mondo ci spinge a dubitare di noi stesse, della validità dei nostri desideri. Eppure Violet non molla. Vuole l’indipendenza, una vita sessuale, la possibilità di fare esperienze, di innamorarsi, di valicare limiti. Dall’inizio alla fine del libro, l’ho vista compiere uno dopo l’altro tanti piccoli, grandi, a volte immensi, atti di libertà. Per certi versi mi è quasi parso che l’autrice qua e là le abbia fatto pagare pegno, ma Violet ne è uscita vincitrice. Una donna che si è rifiutata di restare dentro la casella assegnata dalla società.

Naturalmente aveva sentito parlare di quel tipo di donne e delle amicizie carnali che venivano attribuite alla scarsità di uomini, un tentativo disperato di fuggire dalla solitudine. Però guardando Gilda e Dorothy non si aveva quella sensazione: sembravano semplicemente fatte l’una per l’altra.

Inserendo nella trama anche la storia omosessuale di Gilda e Dorothy, Tracy Chevalier ha guadagnato ai miei occhi  almeno mille punti. Colpisce allo stomaco  leggere della convinzione  che l’attrazione fra donne fosse dovuta alla mancanza di uomini… La stessa Violet, quando realizza l’inclinazione dell’amica Gilda, sembra sulle prime non riuscire a crederla reale. Un tipico effetto del pensiero patriarcale, purtroppo. Ma, proprio come Violet, anche Gilda e Dorothy sono donne che non si piegano e lottano per difendere e mantenere il loro legame, vero e meritevole di essere considerato tale come qualsiasi altro amore. Peccato solo che la loro sia una vicenda secondaria.

Al di là delle vicissitudini  dei personaggi, si sa che ogni libro di Tracy Chevalier è anche una festa di dettagli storici curati e affascinanti. In questo caso, oltre alle tetre ma dovute riflessioni sul nazismo che si stava tristemente affermando, si parla dell’arte del ricamo e di quella campanaria. Il ricamo, lo ammetto, non fa per me, anche se mi piacerebbe vedere i cuscini ricamati della cattedrale di Winchester,  ma i concerti di campane mi hanno veramente conquistata. Le scene in cima al campanile sono tra le mie preferite. 

Violet guardava gli uomini in movimento e ascoltava i rintocchi delle campane, e per qualche istante suoni e gesti diventarono una cosa sola. Era come guardare un balletto e allo stesso tempo ascoltare un concerto.

Il ricamo comunque è alla base della storia. Le nostre vite sono un disegno complesso e, come recita il titolo originale, basta un filo, un unico filo per modificare l’intera immagine. Questo ha fatto Violet, questo hanno fatto Gilda e Dorothy. Hanno osato ricamare in libertà.

E poi ecco una splendida coincidenza: proprio quando io sto divorando tutta la produzione di Tracy Chevalier, per festeggiare i vent’anni del suo più grande successo, La ragazza con l’orecchino di perla, Neri Pozza da oggi, 3 settembre, ripubblica i suoi romanzi con una nuova veste grafica e le copertine realizzate da gatsby_books, già autore anche della bellissima copertina di La Ricamatrice di Winchester.

L’illustratore – seguitelo su Instagram, fa cose stupende! – ha raccontato di avere avuto la consulenza e l’approvazione di Tracy Chevalier in persona per i dettagli di ogni singola copertina. Io conto di collezionarle tutte e di recensirvi i titoli per farvele ammirare meglio.

Per chi non conosce questa autrice è il momento giusto per scoprirla. Magari iniziando proprio da La Ricamatrice di Winchester.

Edizione gennaio 2020 Neri Pozza

Traduzione di Massimo Ortelio

Pagine 289

Le confessioni di Frannie Langton: del nero e del bianco, del rosso come il sangue, dell’amore, che ha più sfumature

E cosa fanno due donne in una stanza tutta per loro? Non è forse questa la domanda che turba di più i miei accusatori?

C’è qualcosa di molto seducente in questa storia. Una seduzione di stampo gotico, oscura e insieme dolce. Quel senso di passione profonda che  rievoca velluti e intimità nascoste, mescolato all’inquietudine generata da ciò che è corrotto e deviato. Me ne sono innamorata.

Un uomo scrive per distinguersi dalla storia collettiva. Una donna per poterne far parte. Quali sono le mie intenzioni nello scrivere queste pagine? La risposta è semplice: si tratta della mia vita, e voglio essere io stessa a metterne insieme i pezzi.

Incontriamo Frances Langton nel carcere londinese di Newgate. Sta per essere processata per omicidio plurimo, rischia la condanna a morte. Su richiesta del suo avvocato difensore, in cerca di appigli per aiutarla, si mette a scrivere la propria verità, racconta di se stessa, sin dall’infanzia. È nata schiava ma è istruita e con un passato molto più complicato di quel che si potrebbe credere.

Le confessioni di Frannie Langton è quindi un thriller storico? Una storia di delitti, sangue e misteri?

Questa però è una storia d’amore, e non solo la cronaca di un assassinio, anche se non so se è la storia che ti aspetti.

Sì, questa è anche, forse soprattutto, una storia d’amore. Un amore proibito in praticamente tutti i modi possibili, tragico sin dall’inizio. Nella Londra del primo Ottocento, la passione nasce fra due donne, una mulatta e una bianca, una cameriera che è stata schiava e la sua padrona. Una presunta omicida e la sua vittima. Nessun incauto spoiler da parte mia: il lettore sa fin dalle prime pagine che Frances è accusata di avere ucciso la sua Madame. E sa che lei l’amava.

Io avevo un ago di felicità nel petto, un dolore così acuto che temevo potesse uccidermi, la mente ancora infuocata da ciò che Madame e io stavamo facendo fino a pochi minuti prima.

Ho amato molto questa relazione già segnata, priva di equilibrio eppure così perfetta. Frances, impetuosa, introversa, indurita dall’esistenza ma anche capace di un amore spontaneo, affamato, sfacciato nella sua purezza. E Meg – Madame – affascinante e fragile, colma di contraddizioni e vuoti da riempire, bella e interessante come il quadro di un pittore ribelle, come il demonio. E come il demonio, pare, altrettanto dolce. Separate dalle origini e dalle circostanze, ma anche ugualmente prigioniere della loro condizione, del loro genere, degli obblighi e della solitudine. Sara Collins ha saputo costruire fra loro qualcosa di carnale, delicato e intossicante. Qualcosa che, nel bene e nel male, assomiglia all’oppio, da cui entrambe le donne sono dipendenti.

Prima che cominci a divorarti dall’interno, l’oppio è come una fiamma. È pura energia, e nello stesso tempo calma assoluta. Contrae le maglie del cervello. La gioia si trasforma in estasi. Ma la cosa migliore è che fa defluire via il mondo.

In questo libro, però, oltre alla passione e al mistero, ci sono anche disturbanti, acuti spunti di riflessione sul razzismo e sulla diversità. Si parla di sperimentazioni sulle persone nere per scoprire e confermare differenze fisiche, cerebrali e cognitive, e sono pagine davvero inquietanti. Il velo di mistero sulle atrocità a cui Frances ha dovuto assistere in Giamaica le rende ancora più spaventose e aberranti. Bastano pochi dettagli, barlumi di procedimenti indicibili nel segreto di un capanno e la pelle si accapona, il senso di orrore è inevitabile.

Sapevo anche troppo bene che gli occhi hanno solo due scelte. Aprirsi o chiudersi. Quando si spalancano troppo e diventano troppo neri, è perché non possono fare spazio a tutto ciò che hanno visto.

Le confessioni di Frannie Langton è, alla fine, la storia dolorosa e struggente di una donna, la cui voce ci raggiunge attraverso il tempo e le pagine e ci racconta cosa significa essere tutto ciò che il mondo e gli uomini ritengono sbagliato. Merita di essere ascoltata.

Ebbene, la mia colpa è questa: sono una donna che si è innamorata di un’altra donna, il peggiore tra i peccati femminili, insieme alla sterilità e al raziocinio.

(Edizione gennaio 2020: Einaudi

Traduzione di Federica Oddera

Pagine 432 )

L’uomo senza inverno: la storia romanzata dell’arte e della vita di Gustave Caillebotte

Fatevelo dire: esprimete una disperazione che lì fuori nessuno ha capito》

Nasceva oggi, il 19 agosto del 1848, Gustave Caillebotte, pittore francese, uno tra i meno noti fra gli Impressionisti, eppure fondamentale per la nascita e la crescita di questa dirompente corrente artistica, di cui fu anche mecenate e collezionista. È quindi il giorno giusto per parlare di L’uomo senza inverno, che lo scrittore Luigi La Rosa ha dedicato proprio alla figura, sfuggente e discreta, di Caillebotte. Preciso che si tratta di un romanzo e non di una biografia: l’autore stesso lo puntualizza nella prefazione, spiegando che la storia narrata, pur nel rispetto cronologico degli eventi, è opera di invenzione, in particolare per quel che riguarda le vicende personali e sentimentali dell’artista e alcuni personaggi.

La sconosciuta alla finestra, come pure la severa Céleste, e l’uomo in cilindro a passeggio in un giorno di pioggia, e i piallatori, i canottieri, tutti i personaggi che erano usciti dal suo pennello evitavano di guardare dritto negli occhi. Erano tutti alla ricerca di un punto di fuga, un altrove che non si poteva più dire cittadino né umano.

È un’opera di fantasia, certo, ma, credetemi, ha un respiro storico talmente potente e realistico da farci immergere con tutti i nostri sensi e i nostri sogni in un’epoca di incredibile fermento artistico e nel percorso creativo di Caillebotte. La genesi di ogni suo quadro, la nascita degli Inpressionisti, le loro prime mostre, i legami d’arte e d’amicizia tra il pittore e leggende come Monet, Manet, Degas, Renoir e soprattutto l’italiano De Nittis… Tutto questo ci scorre davanti agli occhi capitolo dopo capitolo, come se fossimo lì in persona ad assorbirne colori, suoni, profumi. La Parigi descritta da La Rosa – che molto chiaramente la conosce benissimo- pulsa di vita ed emerge tridimensionale dalle pagine, ma ci sono anche la campagna francese protagonista di molta  pittura impressionista e la terra di fiume tanto amata da Caillebotte, dove si dilettò nella sua passione per il canottaggio.

Una nuova certezza si faceva strada dentro di lui, e più l’altro parlava, più tale certezza guadagnava forma e solidità, ossia che quel quadro sarebbe stato il suo capolavoro, pertanto lo avrebbe difeso e sostenuto anche a dispetto del mondo.

Partecipiamo anche alla creazione di I piallatori di parquet, l’opera probabilmente più straordinaria di Caillebotte. Ho sempre amato tutta la sua produzione ma i suoi piallatori sono un’assoluta meraviglia, qualcosa di inarrivabile. E Luigi La Rosa ci fa immaginare, sognare, intuire come possano aver preso vita. Ci invita a ipotizzare che uno di loro, il più giovane, sia stato l’amante di Caillebotte, mutando il nostro modo di guardarli e percepirli. Arriviamo davvero a credere di vederli attraverso lo sguardo appassionato e tormentato del pittore. Personalmente so che d’ora in poi i piallatori (e anche molti altri quadri di Caillebotte) avranno per me un significato anche più speciale. E devo dare atto a La Rosa della gentilezza e dell’empatia con cui ha tracciato la mappa degli affetti, degli amori e delle difficoltà emotive ed esistenziali di Caillebotte. Ha reso plausibili e concreti il rapporto complesso con i genitori e quello strettissimo col fratello Martial, l’omosessualità vissuta in modo contrastato, lo sforzo di veicolare ed esprimere emozioni, vuoti, desideri attraverso la pittura. Per quanto liberamente interpretato, Gustave Caillebotte attraversa il libro vivo e vibrante e ci tocca il cuore.

Quando riaprì gli occhi, nel cuore della notte, la sola cosa che vide fu la tavola di un cielo buio, senza più confini e senza stelle. Non riusciva ad orientarsi, a comprendere dove fosse finito. Quando i battiti si placarono scese un’immensa pace. Per la prima volta ebbe il sospetto di essere già morto.

Gustave Caillebotte nasceva oggi e non ha avuto una lunga vita, meno di cinquant’anni. I protagonisti delle sue opere guardavano sempre altrove, ma lui, nel suo autoritratto, ci fissa dritto negli occhi. I suoi sono profondi, contengono mondi non condivisi, abissi di riservatezza. Forse è stato davvero un uomo senza inverno, senza quella che secondo Stéphane Mallarmé è la stagione serena e lucida dell’arte. Forse così doveva essere e per questo nei suoi quadri resta un senso di mistero e grazia sospesi. Forse per certi artisti esiste una sola, intensa, indimenticabile stagione.

(Edizione febbraio 2020: Piemme

Pagine 448)

La via dei pianeti minori: tra il passato e il futuro ci sono le stelle, le cose non dette e l’emozione dell’attesa

Che cosa vedevano tutti loro lassù che li teneva incollati oltre l’ora del sonno?

Nel mese di luglio, la cometa Neowise ha attraversato il nostro cielo e anche al centro di La via dei pianeti minori c’è una cometa, che, con il suo viaggio siderale, fatto di ritorni periodici, scandisce le vite di un gruppo di astronomi e delle persone ad essi legate, per venticinque anni. Un quarto di secolo in cui uomini e donne invecchiano e muoiono, figli nascono e crescono, amori iniziano e matrimoni finiscono. Venticinque anni di scelte, cambiamenti ed errori, che si aprono e si chiudono su un’isola tredici giorni nel passato. Sì, avete letto bene: un’isola in cui il calendario gregoriano non è mai stato accettato e quindi si trova tredici giorni indietro rispetto al nostro tempo. Su quest’isola la cometa è stata scoperta e lì, in una notte di osservazione del 1965, accadrà un tragico incidente determinante per il futuro.

Che strano che le cose possano rivoltarsi così su se stesse a posteriori, pensò. Che il futuro sia sempre così inevitabile, e che il passato continui a cambiare forma.

Di nuovo, Andrew Sean Greer ha saputo conquistarmi. Mi aveva finora abituata a storie con pochi personaggi e dal ritmo piuttosto serrato ed ecco che invece questa volta mi sono ritrovata immersa in una trama insolitamente corale e dilatata nel tempo. All’inizio questo mi ha un po’ spiazzata ma poi lentamente sono scivolata nel flusso di tutte quelle esistenze intrecciate tra loro, cadenzate dai passaggi di una cometa. Perché, nonostante l’approccio narrativo appaia differente, l’abilità di Greer nel tratteggiare i sentimenti e i caratteri è sempre la stessa. Ha una delicatezza particolare nei confronti dei suoi personaggi, un’empatia profonda che si trasmette anche ai lettori. Non siamo solo spettatori di queste vite, riusciamo a comprenderle, a non giudicarle. E poi in questo caso ha parlato di stelle e di passione per l’astronomia. Un invito a nozze per me, inevitabile amarlo ancora di più.

Noi siamo sordi a ciò che la vita ci prepara.

È una storia dal retrogusto amaro, questa, anche piuttosto triste. Il senso di estraneità del cielo, lassù, è ben calibrato con quello di precarietà quaggiù. Le cose che capiamo troppo tardi, i fraintendimenti, quella mano che non ci siamo decisi a toccare, quella persona che aspettiamo, che forse aspetteremo sempre, sul sentiero. Comete, mondi, altre galassie ruotano sopra le nostre teste, in tempi e velocità che la mente stenta a contenere, e noi siamo qui, impegnati a non capirci, a inseguirci sbagliando le svolte, cercando la porta giusta per una chiave, per poi volare via verso il mare, come polvere.

Aveva sempre sperato che ci fosse tempo a sufficienza, che si potesse condurre una certa vita e poi, quando si fosse appannata, scambiarla con quella che avevi sempre desiderato; ma il tempo era finito. Era andato in fumo.

Però non crediate che sia una lettura deprimente. In realtà, in questo periodo così insolito, che aumenta le nostre insicurezze, può essere una lettura invece necessaria. Spinge a riflettere, a ricordarci che il tempo scorre e troppo spesso lo lasciamo passare senza impiegarlo davvero. Senza esporci. Sembrano concetti scontati, ma sappiamo tutti che la quotidianità ci distrae e ci fa mettere da parte anche ciò che è ovvio.

Nel mio cuore di lettrice, comunque, resterà l’immagine di un ragazzo che, pieno di emozione e ansia crescente, resta ad aspettare che la porta di casa si apra. La porta da cui deve entrare l’uomo che ha scelto. Un’attesa che contiene già tutti i futuri possibili di un amore e di una vita insieme. Voglio credere che per lui, lì, trepidante, con il cuore a mille per la gioia e la paura, si tratti dell’attesa giusta.

No, l’amore non era quello che gli avevano mostrato. Non il cortese accumulo di affetto. Non la sedimentazione del cuore. Era qualcosa che ti mette in grave pericolo e, come nel caso di Josh quando si sedette di nuovo a fissare la porta, che ti si annida nel cuore come una molla compressa.

(Edizione maggio 2019: La nave di Teseo

Traduzione di Elena Dal Pra

Pagine 395)

La riapertura del Cerchio di Legno: novità, progetti e tanta voglia di fare di nuovo arte insieme

In meno di due anni di vita, il Cerchio di Legno, laboratorio teatrale nel cuore della provincia veronese, fondato e profondamente voluto da Luca Giacomelli Ferrarini e Cristian Ruiz, ha conquistato tanti cuori e tanto affetto, da chi lo frequenta come studente sino a chi semplicemente ne sostiene il percorso artistico e creativo. E così, durante il lockdown, questo piccolo grande luogo di cultura e aggregazione è mancato moltissimo a tutti.

Finalmente, non appena è stato possibile, e naturalmente applicando tutte le misure di sicurezza richieste, il Cerchio ha riaperto e nel mese di luglio ha accolto di nuovo le studentesse del corso over 14, che, lo ricordo,  prevede un programma di studio delle tre principali discipline del teatro musicale (recitazione, canto e danza) e fornisce gli strumenti necessari per prepararsi agli esami di ammissione per accedere alle migliori accademie di musical in Italia e all’estero.

La parentesi estiva si è chiusa domenica 26 luglio, dopo tre settimane di recupero intensivo, con una speciale esibizione per pochi spettatori selezionati, in cui le ragazze hanno recitato un estratto da La casa di Bernarda Alba di Federico Garçia Lorca e interpretato brani tratti da Sister Act, Sweeney Todd, Wicked e West Side Story.

Abbiamo pianto, riso, lavorato sulle emozioni più nascoste e riflettuto sul difficile mestiere del performer.

Sono ricominciati anche i weekend aperti a stagisti esterni e uditori:  il 18 e 19 luglio è stata la volta del fine settimana  dedicato a Mary Poppins e sono già aperte le iscrizioni per il prossimo incontro, che si svolgerà il 29 e 30 agosto 2020, per concludere in bellezza l’estate, con uno studio del musical Mamma mia!                         Come docente di canto corale, tornerà, ormai per la terza volta, Elisa Dal Corso.

La scuola si prepara anche a un autunno ricco di novità e progetti per tutte le età. Le lezioni dell’anno accademico 2020/2021 riprenderanno il 21 settembre 2020, quasi a due anni esatti dall’inaugurazione, e oltre al corso per adulti, sono previsti anche corsi di musical per bambini, il laboratorio teatrale Junior (dai 9 ai 13 anni) e il laboratorio teatrale Baby (dai 6 agli 8 anni).

Per tutti i corsi e l’incontro di fine agosto, è possibile iscriversi e avere informazioni scrivendo a: cerchiodilegno@aol.com

Punta a prenderti il cielo” canta Mary Poppins e al Cerchio di Legno si punta sempre verso l’alto. Altre sorprese e tante belle idee sono in serbo per il futuro. La passione e la speranza che brillano negli occhi dei docenti e dei loro allievi ci ricordano che, soprattutto in questo momento di incertezza e confusione, l’Arte non è un lusso secondario, bensì una risorsa essenziale. Durante il lockdown, è stata proprio l’Arte, in tutte le sue forme, a sostenere, aiutare, nutrire le nostre emozioni e le nostre menti messe a dura prova. E l’Arte è fatta di persone e anche di scuole come il Cerchio di Legno. Dovrebbe essere scontato ma credo valga la pena ripeterlo.

(Fotografie tratte dalle pagine Instagram e Facebook del Cerchio di Legno

Grafica delle locandine di Luca Giacomelli Ferrarini)

Jekyll & Hyde: la BSMT e il primo musical al tempo del distanziamento sociale

Lasciando il Teatro Comunale di Ferrara, la sera del 9 febbraio, ignoravo che avrei potuto tornarci solo dopo cinque mesi. La mia prima volta di nuovo a teatro, dopo il lockdown, è avvenuta in un infuocato pomeriggio di luglio, proprio dove tutto si era fermato. Difficile descrivere l’emozione di ritrovarmi finalmente lì, in attesa di entrare, e poi nel foyer, e su per le scale, fino al palchetto. Azioni che prima erano abituali, ora hanno un sapore diverso,  straordinario. E un po’ tutto, l’11 luglio, è stato straordinario, in verità.

Straordinaria davvero, per esempio, la trasformazione del teatro: la platea, privata delle poltrone, è divenuta il palcoscenico, l’orchestra dal vivo è stata spostata sul palco, con il pubblico presente solo nei palchetti e in loggione. Un cambio radicale e affascinante, sia per chi recitava che per chi assisteva, l’azione di colpo centrale e circolare e per molti versi più immersiva. Certo si tratta di una soluzione praticabile solo per i teatri con questa tipologia di struttura, ma indubbiamente può rappresentare una sfida stimolante sia a livello registico che coreografico, portando a un totale ripensamento degli spazi, dei movimenti scenici, del rapporto tra performer e spettatori.

E a proposito di sfide, la BSMT di Bologna – prestigiosa scuola di teatro musicale diretta da Shawna Farrell e da sempre sinonimo di produzioni di qualità – quest’anno ha effettivamente fronteggiato la notevole impresa di portare in scena il primo musical ai tempi del distanziamento sociale. Va detto che il titolo proposto si prestava bene all’occasione: dopotutto la trama di Jekyll & Hyde, noto musical creato da Frank Wildhorn e Leslie Bricusse, offriva già di suo, trattando di scienza, medicina, bene e male, la possibilità di essere trasportata nel nostro presente, nel pieno degli eventi d’attualità e dell’emergenza da Covid-19, giustificando così l’uso di mascherine e guanti da parte dei personaggi e anche la mancanza di contatti fisici. Di grande effetto e sinceramente emozionante, il momento in cui, attraverso uno dei numerosi delitti di Hyde, è stata citata la morte di George Floyd. Ho apprezzato l’accostamento del lato violento e razzista della nostra società a quello oscuro e malvagio dell’animo umano, incarnato nella figura di Hyde.

Non si possono ovviamente adattare tutte le storie con le stesso espediente, ma le idee e la capacità di mettersi in gioco sfoderate dal regista Mauro Simone e dal coreografo Giorgio Camandona dimostrano che il coraggio dell’innovazione c’è,  che il cambiamento si può tentare, lavorando sull’immaginazione. E mi auguro che valga per altri allestimenti futuri, anche molto diversi. In un momento storico così strano e incerto, in cui il settore del teatro annaspa, rischiando di restare stritolato tra gli ingranaggi delle varie normative anti-covid, vale la pena di pensare anche a un rinnovo degli schemi, cercare strade differenti, magari spiazzanti, bizzarre, curiose, stimolanti. Del resto l’Arte è proprio questo: evoluzione, movimento, mutazione, apertura.

Una sfida decisamente vinta, quindi, quella della BSMT, grazie anche a un gruppo di giovanissimi performer di livello altissimo, tra cui va citato doverosamente Andrea Meli, nel ruolo tutt’altro che semplice del protagonista Henry Jekyll e del suo doppio, Edward Hyde. Bellissima voce, notevole capacità espressiva, ha superato brillantemente la prova e non dubito lo attenda un percorso ricco di soddisfazioni. Dovrei davvero nominare tutto il numeroso cast, però, tanti ragazzi e ragazze con gli occhi accesi dalla grinta e dalla passione per il palcoscenico. Si sono guadagnati ogni applauso. Il mio colpo di fulmine è stato per Valeria Cozzolino, che interpretava Lucy, il mio personaggio preferito di sempre di questo musical. L’ho trovata luminosa e toccante, la sua voce mi ha conquistata e mi sono commossa nei suoi assoli. Spero di poterla rivedere, prossimamente, in altri ruoli importanti. Segnalo anche la bella performance di Martina Fornasari, nei panni di Emma, e anche fra gli assistenti alla regia. La direzione musicale era di Stefania Seculin e Valentino Corvino ha diretto i componenti dell’Orchestra della Città di Ferrara e del Conservatorio Frescobaldi.

Nonostante tutto, la BSMT si è impegnata a non fermarsi. Dopo Jekyll and Hyde, in questi giorni sta portando in scena a Bologna City of Angels, per la regia di Fabrizio Angelini e Francesca Taverni, mentre ad agosto, sempre a Bologna sarà la volta di Oklahoma diretto da Saverio Marconi. Altre sfide da vincere, voglia di guardare avanti, anche con la mascherina, anche a distanza.

Prendiamo esempio, lasciamoci ispirare. E, comunque, dovunque, torniamo a teatro.

(Fotografie di Giulia Marangoni, dalla pagina Instagram di BSMTProductions)