Le gratitudini: serve dolcezza prima dell’ultima curva

Si chiama Michka. È una vecchia signora con un’aria da ragazza. O una ragazza invecchiata per sbaglio, vittima di un brutto sortilegio.

Mishka non può più restare sola, deve trasferirsi in una casa di riposo. La vecchiaia la sta tradendo portandole via le parole, a lei che correggeva bozze e leggeva Doris Lessing, Sylvia Plath e Virginia Woolf.

Senza il linguaggio cosa resta?

Come suggerisce il titolo, questa è una storia che ruota intorno alla gratitudine, ai grazie che non abbiamo detto e che rimpiangeremo, a quelli che abbiamo ancora il tempo di dire. I grazie per un gesto, per una parola, per un momento, per un aiuto o una presenza che ci hanno cambiato il corso della vita. Una mano tesa, un abbraccio che accoglie, una conversazione che riempie il vuoto o illumina la mente. Grandi o piccoli, grazie che contano… Ne abbiamo detti abbastanza?

Mi aspetta seduta in poltrona. Nell’attesa non fa nulla. Non finge di leggere, di lavorare a maglia, o di essere occupata. Qui, aspettare è già di per sé un’occupazione.

Le gratitudini racconta anche di questo. Dei luoghi dove si aspetta l’ultima curva. Dove l’attesa ti porta via un pezzo alla volta. In certi casi, come quello di Mishka, sono le parole e i loro significati a svanire lentamente, sottraendo la capacità di comunicare, anche di poter dire quell’ultimo grazie, tanto importante. O ancora a smarrirsi è la memoria, la personalità, tutta quella vita alle nostre spalle, tutti quei ricordi unici che ci rendono ciò che siamo. Ci sono stata, in quei luoghi di attesa. Ricordo come mi sentivo all’uscita, il sollievo che durava poco, perché poi mi chiedevo come andrà a finire per me ?

Amo il tremolio delle loro voci. Quella fragilità. Quella dolcezza. Amo le loro parole travestite, approssimative, smarrite, e i loro silenzi.

Non è facile scrivere bene della vecchiaia, dell’ultimo stadio. Dei corpi sempre più piccoli e deboli, degli occhi sempre più grandi e spaesati. Ho apprezzato, da questo punto di vista, la delicatezza di Delphine De Vigan, la sua attenzione alla dignità, la sua comprensione. Soprattutto ho amato la figura di Jêrome, il giovane ortofonista incaricato di aiutare Mishka a lenire i danni dell’afasia. Il suo approccio con i pazienti, il modo in cui li vive, li ascolta, li ricorda, sono gli stessi in cui ho sempre creduto io. Ci vuole vero amore, vera passione, per accompagnare qualcuno fino alla fine.

Secondo te ci sono molte persone che non conoscono la dolcezza?

Questa non è una citazione del libro. Me lo chiese una signora durante il mio tirocinio, mentre la aiutavo a prepararsi per la notte. Anche vicini all’ultima curva si continua a sognare, pur senza parole, pur senza memoria… Molti anziani, molti dei più deboli, in questo tragico periodo, stanno andando via completamente soli, separati dagli affetti rimasti, anche dal conforto di un grazie. O anzi di un gratis, come direbbe Mishka. Consiglio questo libro, dedicandolo a loro.

Edizione febbraio 2020: Einaudi Editore

Traduzione di Margherita Botto

Titolo originale Les Gratitudes

Pagine 160

Sentinella della pioggia: la vita è un grande fiume e a volte esonda portandoci via

Perché quel “solo noi quattro” suonava così rassicurante e sinistro?

Curioso il mio incontro con questo libro. Lo avevo appena preso, a istinto, come faccio quasi sempre, attratta dalla copertina e incoraggiata dalla casa editrice, che di solito pubblica titoli che apprezzo. Ed ecco che mi capita di leggere per puro caso una recensione che lo demolisce del tutto, definendolo noiosissimo e lento. Lì per lì ci sono rimasta un po’ male, ma di base mi faccio influenzare dalle recensioni solo fino a un certo punto e… per farla breve, dato che, come sosteneva una persona a me molto cara, non tutti i gusti sono alla menta, è andata a finire che io invece l’ho divorato d’un fiato, in una sola sera, incapace di staccarmi dalla storia.

Una storia di per sé piuttosto classica, la tipica vicenda di una famiglia (in questo caso francese) con rapporti più o meno irrisolti, che si ritrova a doverli affrontare costretta dagli eventi. Un figlio che si è costruito una vita dall’altra parte dell’oceano e non ha mai veramente parlato con il padre della propria omosessualità. Una figlia con un matrimonio difficile, che non ha mai superato davvero un trauma del passato. Una madre americana, bellissima e poco empatica. Un padre più connesso con gli alberi, il suo mestiere, il suo grande amore, che con i propri congiunti. La morte di una zia di cui non si parla e che genera sensi di colpa. Cose non dette, ferite non rimarginate, rapporti bloccati dalla distanza e dai silenzi. Una trama già nota, in effetti, ma come ben sa chi ama leggere, spesso in un libro più del “cosa” conta il “come”. E in questo caso anche il “dove” e il “quando”.

La famiglia protagonista infatti si riunisce, in occasione di un compleanno, a Parigi, proprio quando la pioggia incessante e torrenziale provoca una catastrofica esondazione della Senna. E questo è proprio ciò che mi ha tenuta incollata alle pagine sino alla fine. Tatiana De Rosnay mi ha fatto sentire la pioggia fin nelle ossa, quella pioggia che non smette, tanto che persino la respiri. E poi l’attesa, la sensazione di catastrofe incombente, la Senna che invade Parigi mentre la famiglia Malegarde è alle prese con sé stessa e con l’improvviso, grave malore che colpisce uno dei suoi componenti. Una metafora neppure molto nascosta ma efficace: la vita a volte esonda, ci sommerge, allagando i nostri luoghi oscuri, sfrattandoci dalle zone di conforto, portando a galla ciò che volevamo scordare. E questo si ricollega all’altro punto forte della trama: alla storia principale, capitolo dopo capitolo, si intrecciano frammenti di un misterioso racconto legato al passato che solo alla fine rivelerà il proprio significato.

Insomma, a me è piaciuto. Tra l’altro è una lettura tristemente perfetta proprio per questi giorni, in cui l’Italia è flagellata dal maltempo e città come Venezia e Matera sono devastate dall’acqua. Questo libro racconta in modo veramente realistico il dramma di un’inondazione in una grande città (davvero impressionante la parte che descrive l’evacuazione dell’ospedale in cui è ricoverato uno dei personaggi). Catartico, forse, o una maniera in più per comprendere meglio.

A quanto pare la pioggia è diventata parte integrante della sua vita. E se il cielo restasse eternamente bagnato e grigio? E se il sole non apparisse mai più?

Edizione agosto 2019 La Nave di Teseo

Traduzione di Tiziana Lo Porto

Titolo originale Sentinelle de la pluie

Pagine 311

L’Assassino Cieco: un viaggio appassionante lungo tre storie

L’unico modo per scrivere la verità è presumere che quanto annoti non verrà mai letto.

A parlare è Iris, ormai anziana, consapevole che la morte si avvicina. Scrive non sa per chi (ma in realtà sì, lo sa) e ricostruisce la propria lunga vita, sin dall’infanzia, soprattutto il rapporto con la sorella minore Laura.

Da bambina, Laura chiedeva: in Paradiso che età avrò?

Laura, particolare, fragile e ribelle. Morta suicida da giovane e divenuta poi famosa per via della pubblicazione postuma di un suo romanzo. Alle memorie di Iris si alternano quindi stralci di questo libro, che ruota intorno agli incontri clandestini di due amanti senza nome. E, come in una matrioska narrativa, nel romanzo lui racconta a lei la storia che sta scrivendo, una variopinta trama fantasy che ha per protagonista un assassino cieco.

Il tatto viene prima della vista, prima della parola. È il primo linguaggio e l’ultimo, e dice sempre la verità. Ecco come la ragazza che non poteva parlare e l’uomo che non poteva vedere si innamorarono.

Quindi, in pratica, L’assassino cieco è il racconto di un uomo misterioso, dentro il romanzo di una suicida, dentro i ricordi di un’anziana donna. Un intreccio complesso che poteva facilmente sfuggire di mano, diventare dispersivo, smarrire per strada l’attenzione del lettore. Ma se l’autrice è Margaret Atwood allora succede che ne esce un’opera poderosa ed intima allo stesso tempo, fluida, scorrevole, avvolgente. Seguire le tre vicende è un’avventura, scoprendo via via quanto profondamente – molto più di quel che si poteva presumere all’inizio – siano legate l’una all’altra.

Perché vogliamo con tale ostinazione commemorare noi stessi? Perfino mentre siamo ancora vivi. Desideriamo affermare la nostra esistenza, come i cani che fanno la pipì sugli idranti antincendio.

È così che ho conosciuto la scrittura pungente e affilata di Margaret Atwood: non ho ancora letto il famoso Racconto dell’Ancella di cui proprio in questi giorni è uscito l’attesissimo seguito, I Testamenti, ma ho trascorso buona parte della primavera e dell’inizio dell’estate in compagnia della lucida, amara ironia di Iris e delle disincantate conversazioni dei due amanti, in luoghi e tempi sempre diversi, avanti e indietro negli anni e nei sogni, fuori e dentro dalla realtà e dalla fantasia.

I francesi se ne intendono di tristezza, ne conoscono di tutti i tipi. È per questo che hanno i bidè.

Amabilmente corrosivo lo stile dell’autrice, mi ha fatto innamorare di lei: nessuna banalità, nessuna retorica romantica, il suo sguardo sugli affetti, il matrimonio, il sesso, la maternità, la natura umana, è diretto e sincero, senza filtri e abbellimenti. Nessuna concessione, la vita è questa, lettore, vediamo di farcene subito una ragione.

Mi sento sempre più come una lettera – depositata qui, raccolta là. Ma una lettera senza destinatario.

In particolare ho amato il modo in cui Iris parla della proprio vecchiaia, con tutti i sentimenti contrastanti che genera, le paure, le frustrazioni.

Dopo che ci si è imposto da egomaniaco qual è, facendo un gran chiasso attorno ai propri bisogni, imponendoci i suoi sordidi e pericolosi desideri, lo scherzo finale del corpo è semplicemente assentarsi. Proprio quando ne hai più bisogno, proprio quando ti serve un braccio o una gamba, all’improvviso il corpo ha altre cose da fare.

Così brutalmente chiara, Iris, di fronte al mondo che cambia, agli errori, alle verità mai dette e che vanno finalmente rivelate, forse a tutti, forse a nessuno, soprattutto a se stessa. Consapevole del valore e del potere della parola.

Le cose scritte possono fare molto male. Troppo spesso la gente non ne tiene conto.

Può non essere una lettura semplice, sono pur sempre più di cinquecento pagine, ma si tratta di un lungo viaggio di cui non ci si pente. Perlomeno per me ne è valsa la pena. E alla fine mi è dispiaciuto separarmi da Iris, era diventata una voce amica. So dove ritrovarla.

Ma lascio me stessa nelle tue mani. Quale altra scelta ho? Quando leggerai quest’ultima pagina, quello – se mai mi troverò da qualche parte è l’unico posto in cui sarò.

(Editore: Ponte Alle Grazie

Traduzione di Raffaella Belletti

Titolo originale: The blind assassin

Pagine 552)

Addio fantasmi: il mistero della memoria e dell’assenza

Passiamo l’esistenza a sbattere le ciglia e poi un battito, uno fra i tanti, cambia direzione e scompiglia ciò che siamo.

Me lo sono sempre chiesto, guardando programmi televisivi, ascoltando vecchie storie: come si convive con la scomparsa di una persona amata?

La scomparsa letterale: un padre, una moglie, un figlio, qualcuno a cui teniamo, che amiamo, un giorno esce di casa e svanisce nel nulla. Non ne conosceremo mai la sorte, non avremo mai un motivo, una conclusione, una tomba, un’elaborazione del lutto. Se lutto si può definire. Sembra più un tradimento, un abbandono senza possibilità di appello.

Come si convive con un evento tanto atroce? Lo si supera mai?

Nadia Terranova indaga su questi interrogativi con il suo bellissimo Addio fantasmi. Afflitto da depressione, Sebastiano Laquidara una brutta mattina svanisce senza più fare ritorno. Lascia sospese nel vuoto di quel mistero sua moglie e la figlia tredicenne Ida. Adesso, ventitré anni dopo, Ida, da Roma, torna a Messina, deve aiutare la madre a sistemare la casa di famiglia che la donna ha deciso di vendere: un ritorno che la metterà a confronto con quell’assenza priva di ragioni che ha risucchiato la sua libertà emotiva, la libertà di sperare.

Avevo tredici anni e non sapevo quanto si è piccole a tredici anni, quanto si creda di essere grandi; le fiabe cadute alle spalle non ti avvisano, non ti consegnano strumenti in eredità: quali sono le avvisaglie che un regno sta per finire?

Mi ritrovo in queste parole. Anche per me un regno è finito a quell’età: la prima grande perdita della mia vita, la stabilità incrinata, tutto diverso, tutto cambiato, un lutto con conseguenze che si sono diramate nel futuro per anni. L’infanzia conclusa bruscamente, l’adolescenza resa ancora più fragile, sebbene io abbia avuto un perché, un addio, una tomba su cui portare fiori.

Ma la vita poi ci insegna che le forme di perdita e di dolore sono tante, così come sono tanti i modi di affrontarne o fuggirne il fardello. In Addio fantasmi non ci sono solo i fantasmi di Ida: ritornando a Messina, da quella madre con cui è più facile arrabbiarsi per evitare di capirla, in quella casa dove troppe cose si sono fermate come un orologio bloccato sull’ora fatidica, lei si renderà conto che esistono anche i fantasmi degli altri, spettri di sofferenze che non aveva sospettato o a cui non aveva prestato attenzione, specchi di ferite sconosciute, a volte inguaribili, che però possono mostrarci anche i riflessi dei nostri traumi, più nitidi e chiari.

Realizzerà che la memoria è fatta di dettagli che spesso teniamo nascosti e rielaboriamo. Chiusi in una scatola, come una capsula del tempo. Aprirla può essere sorprendente, magari un’opportunità di riprendersi la libertà di sperare.

La felicità non esiste ma esistono momenti felici

Edizione: Einaudi (2018)

Pagine: 208