Leggiadra stella: il cuore di un poeta

Mai una mente più inappagata ed inquieta della mia fu posta in un corpo troppo piccolo per contenerla. Mai ho sentito la mia mente riposare con gioia totale e serena su alcuna cosa – su alcuna persona tranne te.

Era un giorno d’estate quando vidi la stanza dove, a Roma il 23 febbraio 1821, morì John Keats. Ricordo di aver provato, dentro di me, un misto di emozioni confuse: commozione, certamente, soggezione, rispetto, ma anche altro, qualcosa di inafferrabile legato all’atmosfera del luogo. Nonostante i tanti turisti che mi circondavano e distraevano, la Keats-Shelley Memorial House riusciva a mantenere intatto il suo fascino, la sua capacità di comunicare. Avevo l’impressione che ci fossero parole ovunque, echi di pensieri, sogni e arte. Avrei voluto silenzio, per ascoltarle meglio. E una luce più dolce, su quel letto in cui era morto un ragazzo di appena venticinque anni.

Tutta la voglia di vivere, amare e creare straripante da quell’esistenza spenta troppo presto è raccontata nelle poche ma preziose pagine di Leggiadra stella, che raccoglie le lettere scritte da Keats a Fanny Brawne.

La mia mente è tutta un tremito, non so dire che cosa sto scrivendo.

Non abbiamo le risposte di Fanny. Keats chiese che tutte le lettere ricevute da lei fossero distrutte dopo la sua morte e i suoi amici lo accontentarono. Come spiega Nadia Fusini nella prefazione, probabilmente lo fecero anche con una certa soddisfazione. La giovane non era ben vista da molti degli amici di Keats, considerata colpevole di sviarlo dalla totale devozione per la poesia, di turbarlo. Anche quando le lettere del poeta, che Fanny aveva conservato, furono vendute all’asta dai figli della donna ormai defunta e poi raccolte in un libro, lettori e critici puntarono il dito contro di lei, accusandola di aver danneggiato la fama di Keats, di essere indegna di lui. Troppo trasporto in quelle lettere, troppo impeto, eccesso. Nell’epoca vittoriana in cui i sentimenti maschili dovevano apparire dominati e sotto controllo, John Keats si era esposto, perdutamente abbagliato, senza curarsi di nascondere la gelosia, le contraddizioni, la febbre che lo pervadevano.

Tu sei sempre nuova.

Cosa aspettarsi, del resto, dall’esperienza dell’amore in un uomo come John Keats?

Poteva viverla solo così, con tutto il variegato universo emotivo che si portava dentro, amplificato dalla consapevolezza della malattia e del destino segnato. Keats aveva studiato medicina, non poteva che riconoscere con lucidità i sintomi. E così amò più forte, come un fiore che brucia, persino invidiando la vita nella sua amata. Una volta partito per Roma, andando incontro ai suoi ultimi giorni, decise di non leggere più le lettere di Fanny, non le aprì neppure. Doveva recidere con decisione il legame per sopportare la fine. Eppure, come riferisce l’amico Joseph Severn che lo vegliò nell’agonia, tenne sempre in mano sino alla morte la corniola bianca che lei gli aveva regalato.

Vorrei che fossimo farfalle e vivessimo tre soli giorni d’estate

Sono belle, queste lettere. Molto vere, struggenti. Ci consegnano, intatto, il cuore di un poeta. Un privilegio.

Ho amato il principio della bellezza in tutte le cose e se avessi avuto tempo mi sarei fatto ricordare.

Edizione maggio 2021 Archinto

Prefazione di Nadia Fusini

Traduzione di Eleonora Carantini

Pagine 83

Cose che succedono la notte: inquietante come una sottile crepa nella porcellana

Lascia stare, non importa. Sono cose che succedono la notte.

Questo è il primo libro di Peter Cameron che leggo. È raro – anzi negli ultimi tempi decisamente impossibile- che io scriva un commento a un libro subito dopo averlo finito, ma in questo caso ho pensato che fosse fondamentale parlarne subito, per non smarrire la scia di confusa fascinazione che mi ha lasciato. È stato come ritrovarsi in un episodio di Twin Peaks.

Erano diretti in un posto ai confini del mondo.

Ci sono un uomo e una donna, non sapremo mai i loro nomi. Sono una coppia sposata e vengono da New York: in una notte nevosa arrivano in treno in un luogo lontano e sperduto, a quanto sembra nell’estremo Nord di un imprecisato paese nordico. Hanno affrontato questo lungo viaggio per un motivo ben preciso, ma quel che colpisce nell’immediato di loro è la profonda solitudine di entrambi. La malattia di lei, terminale, li divide: la donna è chiusa nella propria personale dimensione finale fatta di paura, rabbia e speranza, mentre l’uomo è disarmato e impotente, la ama senza sapere come comprenderla o aiutarla.

Sono cose che succedono la notte. Le persone spariscono, sempre che ci siano mai state.

Questo posto che hanno raggiunto, ai confini del mondo, assomiglia a un limbo, soprattutto l’hotel in cui soggiornano, che pare davvero uscito da una fantasia di David Lynch, popolato da personaggi pittoreschi dai comportamenti ambigui. Sono reali (si presume) ma mi hanno fatto pensare a fantasmi, che esistono solo dietro quelle porte, tra la neve, in giorni dalle notti lunghissime, e non possono, oppure non vogliono o non riescono ad andarsene. Una sorta di decadente, surreale purgatorio che gioca con la mente, in cui ci si può perdere, abbandonarsi.

L’uomo scrutò il proprio riflesso, che lo guardava con una fissità ancora maggiore, e per un istante perse il senso del proprio corpo e si chiese da quale parte dello specchio si trovasse in realtà.

Ecco, leggendo mi sono sentita proprio come il protagonista, il personaggio che più coinvolge. Come un insetto sotto un bicchiere, annaspa e sbatte contro il vetro, cercando risposte, rassicurazioni, un contatto umano, l’illusione di amare senza sbagliare, il sole prima che sparisca… Presto o tardi, tutti quanti sperimentiamo questo smarrimento esistenziale, il desiderio di uscire da noi stessi.

Vorrei sottolineare che, pur essendo una storia cupa e bizzarra, non è priva di speranza, ma questa speranza bisogna saperla rintracciare, interpretare. Dovete credere che l’unico ponte per andare via non sia crollato.

Consiglio la lettura quando fuori è buio. Che faccia caldo o freddo non conta, vi assicuro che sentirete comunque profumo di neve. Suggerisco anche musica di sottofondo, magari qualcosa di Angelo Badalamenti, cantato da Julee Cruise. Se poi avete delle tende rosse l’atmosfera sarà perfetta.

Non fatevi troppe domande. Salite sul treno. E immaginate che l’amore sia anche in un paio di guanti per scaldare mani gelide e in un dolce da mangiare, nascosto in tasca.

Una sottilissima crepa in un bell’oggetto di porcellana è più inquietante dell’oggetto in frantumi sul pavimento.

Edizione Adelphi agosto 2020

Titolo originale: What happens at night

Traduzione di Giuseppina Oneto

Pagine 241

L’Ascensore: il mio grazie a una storia che non può finire

Ci sono storie che parlano direttamente alle nostre emozioni più profonde.

Storie che ci seguono fuori dai teatri, dai cinema, dai libri. Le portiamo con noi, continuiamo a rievocarle, a discuterne, a ipotizzare svolte e finali, a vederci significati nuovi. Sono le storie migliori, non smettono mai di vivere.

L’Ascensore è una di queste storie. Il suo secondo tour si è appena concluso, ma il racconto vive, il suo cuore batte.

Un unico atto, senza tregua per attori e spettatori, in cui l’imprevedibilità della natura umana, con la complicità di un ascensore che si blocca, mescola come carte da gioco i destini di Emma e John, coppia in crisi, e di Mark, un giovane che la vita ha appena spinto sull’orlo del baratro. Una trama misteriosa dal ritmo intenso e un respiro romantico e crudele.

Rimangono nel cuore e nella testa, questi personaggi, così reali e veri. Restano negli occhi il blu cupo e le essenziali linee metalliche sul palcoscenico. Tutto deve essere immaginato eppure c’è, tangibile. Non se ne vanno dalla mente le canzoni, che ci si ritrova poi spesso a citare, perché qualcuna di quelle note, di quelle strofe, risuona anche nelle nostre vite.

Un’atmosfera cinematografica unita alla magia unica del teatro. Come un film, nell’arco dei due brevi – troppo brevi!!- tour che, da aprile 2019 a gennaio 2020, hanno portato L’Ascensore in giro per l’Italia, ho rivisto lo spettacolo più e più volte e davanti ai miei occhi i personaggi sono divenuti via via più nitidi, autentici, il coinvolgimento, l’intimità, il pathos sempre maggiori. Penso a dove potrebbe arrivare, a quanto potrebbe donare, in termini di qualità ed emozioni, una piccola perfetta opera come questa, se avesse l’opportunità di continuare a crescere, a essere diffusa, a consentire ai suoi attori di approfondire ancora e ancora i loro ruoli. Sarà possibile?

Chissà. In Italia non è mai semplice… Io ci spero, ma, vada come vada, ringrazio il coraggio e la lungimiranza di un produttore giovane come Giuseppe Di Falco per aver portato L’Ascensore dalla Spagna ai nostri palcoscenici. Ci ha creduto e si è circondato di talenti giovani come lui, dal regista Matteo Borghi a Luca Peluso che ha creato i suggestivi movimenti scenici così importanti per la trama.

Ma in particolare vanno ringraziati i quattro artisti che per oltre un’ora non abbandonano mai il palco, immersi dal primo all’ultimo secondo nella partita a carte col destino dei personaggi. A partire da Eleonora Beddini, lì a sostenere dal vivo tutto lo svolgersi della vicenda con la sua musica e i fantastici passaggi sonori, da lei appositamente realizzati, che accompagnano l’andare avanti e indietro nel tempo della narrazione.

E poi loro.

Danilo Brugia e il suo tormentato John, preso nella trappola di se stesso: un personaggio per nulla semplice, costruito su note dissonanti, con una crescita notevole nell’interpretazione, replica dopo replica.

Elena Mancuso e la sua appassionata, irrequieta Emma, che regola la temperatura emotiva dell’intero spettacolo, specchio e misura degli stati d’animo di compagni di scena e spettatori: un’attrice dolce e raffinata che sono felice di aver scoperto.

Infine il meraviglioso Mark: meraviglioso perché, con la sua solitudine e il suo smarrimento, con la sua normalità di ragazzo qualsiasi, è il più vicino a tanti di noi. Un piacere vedere Luca Giacomelli Ferrarini in un ruolo tanto intimo: con la sua sensibilità di interprete che ben conosco dona a Mark sfumature così intense, sia nel recitato che nel cantato, da farlo arrivare dritto al cuore.

Grazie, dunque, a tutti.

Il tour è finito ma io ho parlato al presente di questo spettacolo, come se fosse ancora in scena, anche adesso. Di certo sta ancora andando in scena nella mia fantasia. Ci sto persino scrivendo sopra una serie di racconti. Capita così con le storie davvero potenti. Ci rimangono dentro, ci ispirano sogni. Sono le storie che non finiscono mai.

(Video tratti dalle pagine social di L’Ascensore-Un thriller sentimentale

Fotografie tratte dai video)

L’estate incantata: verrà l’inverno e avremo sorsi di estate da bere

Non ho mai saputo spiegare il mio sentimento ambivalente nei confronti dell’estate. Ho sempre pensato che sia la stagione più cupa. Un oscuro splendore, il suo, come l’oro antico, con una luminosità fatta di zone d’ombra. Forse perché tanto mi ha dato ma tanto mi ha tolto.

Poi ecco che scopro che già nel 1957 qualcuno aveva saputo raccontare in un libro l’essenza misteriosa di questa stagione contraddittoria. E, nonostante ci sia arrivata con colpevole ritardo, è stato subito amore.

Conoscevo Ray Bradbury soprattutto come autore di fantascienza ( celebre il suo Fahrenheit 451 e anche le Cronache Marziane), ma, nel caso di L’estate incantata, ha scritto una storia di formazione, un racconto corale, sulla crescita, l’invecchiamento, le speranze e le paure del vivere, il mistero sottile che lega vita e morte.

Se ne stava seduto sul portico, davanti alla zanzariera, e fissava il cielo che si dava un’aria innocente, come se tutto fosse tranquillo, mentre in realtà tutto correva. Ma se si chiudevano gli occhi e ci si sdraiava immobili, allora sì che si sentiva il mondo girare come una trottola, e le orecchie si riempivano dell’eco cavernosa di un mare nero che le invadeva e si frangeva su scogliere inesistenti.

Ecco… questo, per esempio, nelle sere d’estate non vi è mai successo? Sotto un portico, su un terrazzo, il grande cielo stellato sopra di noi, tutte le altre vite, chissà quali, chissà di chi, dietro le finestre accese nel buio, e i pensieri che vanno verso distanze assurde… In inverno non può accadere, siamo protetti nella relativa sicurezza dei salotti, il camino acceso. Solo l’estate ha questo potere di allargare gli spazi, di estendere le percezioni. E Bradbury ha saputo esprimerlo totalmente, con una prosa che ho amato tanto, a tratti poetica, colma di immagini evocative, colori, sapori e odori, della luce particolare delle estati che tutti ci portiamo dentro. La luce di quando eravamo bambini, che non sarà mai più la stessa. E quella di quando il tempo ormai si assottiglia, forse la più vivida.

In questa storia i giovani acquistano la consapevolezza di essere vivi e poi capiscono che un giorno dovranno morire. E i vecchi sono come viaggi all’indietro, macchine del tempo viventi, portatori di memorie ancora così intense da fare persino innamorare.

E poi ci sono i denti di leone.

Vino di dente di leone. Parole che significavano estate. Il vino era l’estate catturata e messa in bottiglia.

Il titolo originale del romanzo è Dandelion Wine, quel vino che il nonno del piccolo Douglas ricava dai denti di leone del giardino e imbottiglia metodicamente per tutta l’estate, così che in inverno ci sarà un po’ d’estate da bere ogni giorno. Pensateci, file di bottiglie dorate, file di momenti, ricordi, sorsi di sole, stelle, temporali. Gocce della stagione che dona e che toglie.

L’estate non finisce mai del tutto.

Edizione 2019 Mondadori

A cura di Giuseppe Lippi

Titolo originale Dandelion wine

Pagine 267

L’ora di Agathe: la vera solitudine è essere vuoti

Sono una solitaria, da tutta la vita. Figlia unica, introversa, poco portata per le attività di gruppo, la mia natura mi ha sempre spinta verso ciò che si può fare in solitudine. Probabilmente non è un caso che io ami scrivere. Non mi sono mai annoiata, però. Da bambina ho sempre beneficiato di una fervida immaginazione e di una mente iperattiva e crescendo la cosa non è cambiata. Non fraintendetemi, mi piace stare con gli altri, anche il mio lavoro è a stretto contatto con le persone, ma c’è una parte di me che prova sempre un brivido di segreto benessere quando, per esempio, salgo su un treno da sola o ceno fuori per i fatti miei.

E qui arrivo al perché di questo preambolo, ovvero qual è l’essenza della solitudine, nella sua accezione più negativa?

A questo interrogativo mi è parso che riesca a rispondere il breve e intenso L’ora di Agathe, opera d’esordio della danese Anne Cathrine Bomann. La storia è ambientata in Francia e racconta di uno psicanalista poco più che settantenne in procinto di andare in pensione. Ha persino avviato un conto alla rovescia, nell’attesa di questo momento tanto desiderato. Si potrebbe pensare perciò che sia pieno di progetti per la nuova vita da pensionato, ma in realtà non è così. Il nostro protagonista conduce un’esistenza piatta e ripetitiva, priva di scopo, di entusiasmi, del minimo palpito per qualcosa o qualcuno. Non solo non ha una vita sociale, ma gli manca proprio la vitalità interiore e, se brama il pensionamento, è perché anche sul lavoro ha perso ogni stimolo.

E così, in un modo o nell’altro, era passata un’altra ora della mia vita》

Saranno due imprevisti a scuoterlo e confonderlo: l’arrivo di Agathe, nuova paziente tedesca affetta da depressione, e la perdita, seppur temporanea, della sua fedele ed efficiente segretaria, che prende un periodo di aspettativa per occuparsi del marito malato. Due avvenimenti che infrangono la sua indifferente routine e innescano in lui meccanismi di emozioni troppo a lungo accantonate. La segretaria gli manca, da solo non sa fare quasi nulla. Agathe lo attrae e lo turba.

Mi sembra di provarci, ma la vita continua a sfuggirmi. Eppure è proprio lì: così vicina che ne sento l’odore. Ma non riesco a capire come si entra》

Questo dice Agathe e intanto lo psicanalista comincia a chiedersi la stessa cosa: come si entra nella vita?

Realizza concretamente di esserne rimasto fuori. Capisce di essersi sbarrato l’ingresso da sé. Ed eccola qui, secondo me, l’essenza della vera solitudine, quella negativa, triste: non vivere da soli, ma vivere senza vivere, vuoti, senza sogni, speranze, passioni. Un vuoto che non si può risolvere neppure circondati da decine di persone, perché dobbiamo essere noi stessi a colmarlo.

Io non ho mai amato nessuno》

《Non tutti abbiamo questa fortuna. Forse per lei sarebbe più facile morire》

《Forse. Ma mi è più difficile vivere》

《Può darsi che lei abbia ragione. Senza l’amore, in una vita non rimane molto》

Essere vuoti significa non provare amore. E non mi riferisco solo all’amore romantico, ovviamente, o a quello per i nostri cari, i nostri amici o i nostri cuccioli. È amore anche quello che mettiamo in un progetto, in ciò che ci appassiona delle cose del mondo, nella gioia per un viaggio, nella capacità di apprezzare la bellezza che ci circonda.

Forse non dovrei lucidare l’argenteria tutti i giorni, se amassi un po’ di più mio marito.

《Non dica così, signora. Io credo piuttosto che dovrebbe cercare di avere un po’ più d’amore per sé stessa》

L’amore indispensabile, quello per noi stessi: se non c’è, non ci può essere altro tipo di amore, solo surrogati a cui ci aggrappiamo per essere salvati.

Ho molto apprezzato lo stile dell’autrice: semplice e delicato, un procedere dolce, in una serie di dialoghi e momenti che delineano piano piano il percorso di consapevolezza del protagonista, portandoci dentro i suoi pensieri, le sue paure, i suoi attimi (evviva!) di meraviglia e autentica emozione. Come finirà per lui? A settantadue anni si può cambiare, rinascere ed entrare nella vita?

Dovete leggere L’ora di Agathe per scoprirlo, ma io dico… e perché no?

(Edizione: Iperborea

Traduzione di Maria Valeria D’Avino

Pagine 160)