La figlia del Re Ragno: un libro che mantiene quello che promette

Lasciate che vi racconti una storia, che parla di un gioco che si chiama Frustrazione.

Questo libro inizia con una scena forte e crudele. Te lo rende chiaro da subito, che non sarà il libro che ti aspetti, forse neanche quello di cui hai bisogno, ma di certo non ti annoierai. Così vai avanti, con un po’ di comprensibile turbamento e molta curiosità.

Superava tutti gli altri quasi di una testa, e aveva una luce che quelli non hanno.

Il libro ti porta in Nigeria, insieme alle due voci narranti. Lei, Abike, ha diciassette anni ed è figlia di un potentissimo e ricchissimo uomo d’affari (del tipo con la villa blindata e le guardie armate all’ingresso). Lui, diciotto anni, è un venditore ambulante che fa del suo meglio per mantenere la sorellina e la madre in preda alla depressione, dopo la morte del padre. Si incontrano, si notano, si piacciono. Se non fosse per quell’inizio piuttosto spiazzante, potresti considerarla una svolta classica: due ragazzi di estrazione sociale diversa, una casualità improbabile che si trasforma in destino ed ecco un giovane amore un po’ shakespiriano, pronto a sfidare le convenzioni e ad andare contro tutto e tutti… Però appunto c’è quell’inizio, che ti mette la pulce nell’orecchio e continui a leggere con una punta di legittimo sospetto e una vaga tensione sotto pelle.

Sono uscito da quella casa sentendomi ingannato e manipolato. Volevo la mia sceneggiatura.

Capitolo dopo capitolo, il libro diventa un vaso di Pandora da cui, tolto il coperchio, emergono segreti e intrecci del passato, scelte fatte e ancora da compiere, l’ombra a due facce della vendetta. Soprattutto ad affascinare è lei, Abike. L’ambulante è un personaggio ben scritto, ben costruito, lo capisci e non hai difficoltà a empatizzare con le sue emozioni e i suoi dilemmi. Ma Abike, la figlia del Re Ragno? È come suo padre? Lo diventerà? È differente? Qual è la sua vera natura? Devi amarla, detestarla, cercare un sentimento nel mezzo?

È Abby, adesso, Abike non c’è più. Insiste affinché la chiami così, e non mi risponde quando mi dimentico e uso il “nome vecchio”. Abike è sempre lì, ma questa nuova personalità salta fuori sempre più di frequente.

A prescindere dalle risposte, tu, lettore, ormai sei irretito, non puoi staccarti dalle pagine. Hai sempre in testa quell’inizio brutale e quasi un po’ ti aspetti che tutto, uguale e diverso, possa ripetersi. Il gioco a cui stai assistendo, Frustrazione, dovrà pur avere un vincitore. O no?

“Perché tu piangi?” Perché sarò sola in questa casa.

Come detto, comunque, questo è un libro onesto, ti aveva avvertito di non essere banale. Ne avrai conferma, sino all’ultima riga. E forse non sarà come te lo aspettavi, forse neanche è quel che ti serviva in questo momento, ma ti piacerà. Ti piacerà parecchio.

Per un attimo vacillo, ma è solo un momento. Lui avrebbe voluto così.

Edizione settembre 2019: Fandango Libri

Traduzione di Chiara Brovelli

Pagine 298

Le avventure di Mercuzio: un esordio imperfetto ma che si fa ricordare

Negli occhi poi, verdi come i boschi, riluceva una specie di bagliore folle, che però rendeva il suo sguardo già bello ancora più espressivo e penetrante.

Chi mi conosce potrà facilmente immaginare il motivo principale della mia curiosità per questo libro. Da sempre, fin dall’infanzia, adoro il Mercuzio di Shakespeare, un personaggio che in anni recenti si è rivelato portatore di sorprendenti novità nella mia vita. Potevo quindi non leggere una storia con il suo nome nel titolo?

Ma in effetti il mio interesse, titolo a parte, è stato alimentato soprattutto dalla trama, ambigua e surreale.

Chi è Mercuzio, misterioso giovane che vive in solitudine in un appartamento in via dell’Anima, a Roma, circondato solo di libri?

Il bel Mercuzio non conosce nulla del presente là fuori, è del tutto scollegato dall’attuale realtà. Non è neppure dato sapere come si mantenga. Sarà Virgilio, il ragazzo delle pizze a domicilio, a guidarlo nella scoperta del mondo infernale là fuori e ad aiutarlo nella conquista della splendida Beatrice, di cui Mercuzio si è perdutamente innamorato.

Perplessi? Io, leggendo, lo ero. Perché, ad esempio, chiamare il protagonista Mercuzio quando forse sarebbe stato più sensato Dante? E cosa mi stava raccontando Daniel Albizzati? Una favola? Una metafora sociale? Altro ancora?

Forse tutto questo e di più. L’autore sfrutta le lacune comportamentali di Mercuzio per parlare dell’uso dei social e della loro influenza nei rapporti interpersonali, specie fra i giovani. È tutto quasi caricaturale, i ragazzi descritti sono per lo più tutti pariolini, ricchi, annoiati, come appena usciti da una fiction piuttosto banale, i loro rituali sociali vengono portati all’estremo. Sulle prime questo mi ha un po’ infastidita, mi sembrava togliesse spessore alla vicenda. Poi ho pensato che tale esasperazione poteva essere voluta, per sottolineare ancora di più l’estraneità di Mercuzio, la sua diversità, anch’essa estrema. Lui è la vera carta vincente del romanzo, col fascino dell’incompreso e dell’incomprensibile. Grazie alle sue strampalate, tragicomiche avventure si riflette anche sull’amicizia, sull’amore, sulla lealtà, sull’essenza dei sentimenti che spesso, nella frenesia del vivere, non ci accorgiamo di lasciare da parte. Sulla necessità del sogno, a volte un rifugio, a volte una via di fuga. Non si può non amarlo, questo Mercuzio alieno e alienato, così innocente e buffo, così fuori tempo e fuori luogo, così saggio e antico, così sincero e bambino. Via via, sì, diventa chiaro perché sia stato chiamato Mercuzio. Il nome gli calza a pennello.

Peccato per la copertina, che non lo rispecchia.

Alla fine, comunque, voi mi chiederete, chi è Mercuzio? L’enigma intorno alla sua figura sarà chiarito? E coronerà il suo sogno d’amore con Beatrice?

Domande a cui ovviamente non posso rispondere, svelerei troppo. Ma davvero questa strana storia imperfetta mi ha colpita, intrigata e sorpresa. In particolare mi ha spiazzata il finale. Non me lo aspettavo. Lì… lì ho veramente riconosciuto Mercuzio, come non lo avevo mai visto, eppure proprio lui, quello che amo da sempre, quello che credeva con passione nella vera amicizia e nell’amore, sin nelle viscere, dentro il sangue.

Mercuzio il folle.

Non sono io quello pazzo; pazzi sono tutti quelli che riescono a passare sopra a tutto. Insomma, bisognerà pure dare importanza a qualcosa in questo mondo, no? Sennò, se tutto è equiparabile, se tutto è livellabile, se ogni cosa è perdonabile, niente vale più, e non vale neanche più la pena di dare un senso alle cose.

(Edizione marzo 2018: Fazi

Pagine 254)

L’Assassino Cieco: un viaggio appassionante lungo tre storie

L’unico modo per scrivere la verità è presumere che quanto annoti non verrà mai letto.

A parlare è Iris, ormai anziana, consapevole che la morte si avvicina. Scrive non sa per chi (ma in realtà sì, lo sa) e ricostruisce la propria lunga vita, sin dall’infanzia, soprattutto il rapporto con la sorella minore Laura.

Da bambina, Laura chiedeva: in Paradiso che età avrò?

Laura, particolare, fragile e ribelle. Morta suicida da giovane e divenuta poi famosa per via della pubblicazione postuma di un suo romanzo. Alle memorie di Iris si alternano quindi stralci di questo libro, che ruota intorno agli incontri clandestini di due amanti senza nome. E, come in una matrioska narrativa, nel romanzo lui racconta a lei la storia che sta scrivendo, una variopinta trama fantasy che ha per protagonista un assassino cieco.

Il tatto viene prima della vista, prima della parola. È il primo linguaggio e l’ultimo, e dice sempre la verità. Ecco come la ragazza che non poteva parlare e l’uomo che non poteva vedere si innamorarono.

Quindi, in pratica, L’assassino cieco è il racconto di un uomo misterioso, dentro il romanzo di una suicida, dentro i ricordi di un’anziana donna. Un intreccio complesso che poteva facilmente sfuggire di mano, diventare dispersivo, smarrire per strada l’attenzione del lettore. Ma se l’autrice è Margaret Atwood allora succede che ne esce un’opera poderosa ed intima allo stesso tempo, fluida, scorrevole, avvolgente. Seguire le tre vicende è un’avventura, scoprendo via via quanto profondamente – molto più di quel che si poteva presumere all’inizio – siano legate l’una all’altra.

Perché vogliamo con tale ostinazione commemorare noi stessi? Perfino mentre siamo ancora vivi. Desideriamo affermare la nostra esistenza, come i cani che fanno la pipì sugli idranti antincendio.

È così che ho conosciuto la scrittura pungente e affilata di Margaret Atwood: non ho ancora letto il famoso Racconto dell’Ancella di cui proprio in questi giorni è uscito l’attesissimo seguito, I Testamenti, ma ho trascorso buona parte della primavera e dell’inizio dell’estate in compagnia della lucida, amara ironia di Iris e delle disincantate conversazioni dei due amanti, in luoghi e tempi sempre diversi, avanti e indietro negli anni e nei sogni, fuori e dentro dalla realtà e dalla fantasia.

I francesi se ne intendono di tristezza, ne conoscono di tutti i tipi. È per questo che hanno i bidè.

Amabilmente corrosivo lo stile dell’autrice, mi ha fatto innamorare di lei: nessuna banalità, nessuna retorica romantica, il suo sguardo sugli affetti, il matrimonio, il sesso, la maternità, la natura umana, è diretto e sincero, senza filtri e abbellimenti. Nessuna concessione, la vita è questa, lettore, vediamo di farcene subito una ragione.

Mi sento sempre più come una lettera – depositata qui, raccolta là. Ma una lettera senza destinatario.

In particolare ho amato il modo in cui Iris parla della proprio vecchiaia, con tutti i sentimenti contrastanti che genera, le paure, le frustrazioni.

Dopo che ci si è imposto da egomaniaco qual è, facendo un gran chiasso attorno ai propri bisogni, imponendoci i suoi sordidi e pericolosi desideri, lo scherzo finale del corpo è semplicemente assentarsi. Proprio quando ne hai più bisogno, proprio quando ti serve un braccio o una gamba, all’improvviso il corpo ha altre cose da fare.

Così brutalmente chiara, Iris, di fronte al mondo che cambia, agli errori, alle verità mai dette e che vanno finalmente rivelate, forse a tutti, forse a nessuno, soprattutto a se stessa. Consapevole del valore e del potere della parola.

Le cose scritte possono fare molto male. Troppo spesso la gente non ne tiene conto.

Può non essere una lettura semplice, sono pur sempre più di cinquecento pagine, ma si tratta di un lungo viaggio di cui non ci si pente. Perlomeno per me ne è valsa la pena. E alla fine mi è dispiaciuto separarmi da Iris, era diventata una voce amica. So dove ritrovarla.

Ma lascio me stessa nelle tue mani. Quale altra scelta ho? Quando leggerai quest’ultima pagina, quello – se mai mi troverò da qualche parte è l’unico posto in cui sarò.

(Editore: Ponte Alle Grazie

Traduzione di Raffaella Belletti

Titolo originale: The blind assassin

Pagine 552)

Amy e Isabelle: l’imperfetta linea nera tesa tra una figlia e una madre

Ad Amy sembrava che una linea nera le tenesse collegate, una linea non più pesante di un tratto di matita, forse, ma una linea che era sempre presente.

Una manciata di parole, eppure con dentro un intero mondo. Il buono e il cattivo, l’amore e il dolore del rapporto tra Amy e Isabelle. Quella linea nera che pare così fragile e invece le tiene insieme, con forza, per forza. In apparenza tanto diverse e in realtà l’una lo specchio dell’altra: Amy, la figlia, e Isabelle, la madre, più simili di quanto credano o di quanto possano accettare.

Una banalità, in fondo. Quante storie di rapporti come questo abbiamo letto?

Ma la forza della scrittura di Elizabeth Strout – in un libro d’esordio che non sembra tale, tanta è la sua sorprendente maturità – sta proprio in questo: la solita cittadina della provincia americana, i soliti scontri tra una madre impeccabile e rigida e una figlia adolescente alle prime esperienze, le solite contraddizioni, le solite illusioni… tutto già visto, però raccontato e scritto bene. Anzi benissimo.

Pare scontato invece vale tutto.

Lo stile della Strout è realistico, affilato e al medesimo tempo corposo, pieno di sfumature. La struttura del romanzo è costruita sul presente di un’estate opprimente, tanto nel clima quanto nei pensieri carichi di ansie e private sofferenze dei personaggi, con incursioni nell’inverno appena trascorso, a scrutare i turbamenti e i sogni che hanno anticipato il precipitare degli eventi.

… negli anni a venire, da adulta, ne avrebbe parlato con parecchie persone, prima di rendersi conto, alla fine, che era solo una storia come tante e che in fondo non interessava a nessuno. Ma per loro, per Amy e Isabelle, aveva un’importanza cruciale…

Una vicenda come tante appunto, narrata con forza e profondità. Le emozioni di Amy e Isabelle, le esperienze, le speranze, le delusioni, la rabbia, le bugie, i voli pindarici, le cadute e le risalite, ogni loro sentimento è vissuto anche dal lettore. Non ci sono colpe da attribuire o alibi da trovare, è solo la vita con le sue umane incomprensioni e quella fatica che i legami forti a volte costano.

Ma che ci potevi fare? Solo tirare avanti. La gente tirava avanti; lo faceva da migliaia di anni. Facevi tesoro della gentilezza che ti veniva offerta, lasciandotela filtrare dentro il più possibile, e con gli anfratti che restavano oscuri cercavi di conviverci, sapendo che col tempo si sarebbero potuti trasformare in qualcosa di quasi sopportabile.

E verso la fine credo che questo libro contenga una delle pagine di solidarietà e unione femminile più belle e commoventi che mi sia capitato di leggere. Un salotto, Isabelle, Dottie, Bev: donne, semplicemente donne, messe alla prova, ferite, smarrite, che in una manifestazione di amicizia sincera trovano una bolla di conforto e accettazione.

In definitiva, se non avete ancora letto qualcosa di Elizabeth Strout, rimediate e fatelo. E non perché abbia vinto un Pulitzer.

Proprio perché è davvero brava.

(Edizione: Fazi

Traduzione di Martina Testa

Pagine 474)