L’ora di Agathe: la vera solitudine è essere vuoti

Sono una solitaria, da tutta la vita. Figlia unica, introversa, poco portata per le attività di gruppo, la mia natura mi ha sempre spinta verso ciò che si può fare in solitudine. Probabilmente non è un caso che io ami scrivere. Non mi sono mai annoiata, però. Da bambina ho sempre beneficiato di una fervida immaginazione e di una mente iperattiva e crescendo la cosa non è cambiata. Non fraintendetemi, mi piace stare con gli altri, anche il mio lavoro è a stretto contatto con le persone, ma c’è una parte di me che prova sempre un brivido di segreto benessere quando, per esempio, salgo su un treno da sola o ceno fuori per i fatti miei.

E qui arrivo al perché di questo preambolo, ovvero qual è l’essenza della solitudine, nella sua accezione più negativa?

A questo interrogativo mi è parso che riesca a rispondere il breve e intenso L’ora di Agathe, opera d’esordio della danese Anne Cathrine Bomann. La storia è ambientata in Francia e racconta di uno psicanalista poco più che settantenne in procinto di andare in pensione. Ha persino avviato un conto alla rovescia, nell’attesa di questo momento tanto desiderato. Si potrebbe pensare perciò che sia pieno di progetti per la nuova vita da pensionato, ma in realtà non è così. Il nostro protagonista conduce un’esistenza piatta e ripetitiva, priva di scopo, di entusiasmi, del minimo palpito per qualcosa o qualcuno. Non solo non ha una vita sociale, ma gli manca proprio la vitalità interiore e, se brama il pensionamento, è perché anche sul lavoro ha perso ogni stimolo.

E così, in un modo o nell’altro, era passata un’altra ora della mia vita》

Saranno due imprevisti a scuoterlo e confonderlo: l’arrivo di Agathe, nuova paziente tedesca affetta da depressione, e la perdita, seppur temporanea, della sua fedele ed efficiente segretaria, che prende un periodo di aspettativa per occuparsi del marito malato. Due avvenimenti che infrangono la sua indifferente routine e innescano in lui meccanismi di emozioni troppo a lungo accantonate. La segretaria gli manca, da solo non sa fare quasi nulla. Agathe lo attrae e lo turba.

Mi sembra di provarci, ma la vita continua a sfuggirmi. Eppure è proprio lì: così vicina che ne sento l’odore. Ma non riesco a capire come si entra》

Questo dice Agathe e intanto lo psicanalista comincia a chiedersi la stessa cosa: come si entra nella vita?

Realizza concretamente di esserne rimasto fuori. Capisce di essersi sbarrato l’ingresso da sé. Ed eccola qui, secondo me, l’essenza della vera solitudine, quella negativa, triste: non vivere da soli, ma vivere senza vivere, vuoti, senza sogni, speranze, passioni. Un vuoto che non si può risolvere neppure circondati da decine di persone, perché dobbiamo essere noi stessi a colmarlo.

Io non ho mai amato nessuno》

《Non tutti abbiamo questa fortuna. Forse per lei sarebbe più facile morire》

《Forse. Ma mi è più difficile vivere》

《Può darsi che lei abbia ragione. Senza l’amore, in una vita non rimane molto》

Essere vuoti significa non provare amore. E non mi riferisco solo all’amore romantico, ovviamente, o a quello per i nostri cari, i nostri amici o i nostri cuccioli. È amore anche quello che mettiamo in un progetto, in ciò che ci appassiona delle cose del mondo, nella gioia per un viaggio, nella capacità di apprezzare la bellezza che ci circonda.

Forse non dovrei lucidare l’argenteria tutti i giorni, se amassi un po’ di più mio marito.

《Non dica così, signora. Io credo piuttosto che dovrebbe cercare di avere un po’ più d’amore per sé stessa》

L’amore indispensabile, quello per noi stessi: se non c’è, non ci può essere altro tipo di amore, solo surrogati a cui ci aggrappiamo per essere salvati.

Ho molto apprezzato lo stile dell’autrice: semplice e delicato, un procedere dolce, in una serie di dialoghi e momenti che delineano piano piano il percorso di consapevolezza del protagonista, portandoci dentro i suoi pensieri, le sue paure, i suoi attimi (evviva!) di meraviglia e autentica emozione. Come finirà per lui? A settantadue anni si può cambiare, rinascere ed entrare nella vita?

Dovete leggere L’ora di Agathe per scoprirlo, ma io dico… e perché no?

(Edizione: Iperborea

Traduzione di Maria Valeria D’Avino

Pagine 160)

L’anno della lepre: un uomo e la sua lepre, dalla Finlandia con furore

Al mattino, il levar del sole rivelò un convoglio interamente coperto di nero fango. Una mucca infangata, un uomo infangato, un vitello infangato e una lepre infangata si erano svegliati

Bizzarra immagine, vero?

Ed è solo una delle tante che potete trovare in questa novella in punta di penna, un gioiellino di ironia e surreale, nordica lucidità.

Un po’ tutti, ammettiamolo, abbiamo desiderato di mollare ogni cosa, almeno una volta nella vita. Andarcene senza voltarci e cambiare completamente esistenza. Poi, certo, non lo abbiamo fatto.

Ma il giornalista finlandese Vatanen invece lo fa davvero. Un giorno, lui e un collega fotografo investono una piccola lepre, che rimane ferita a una zampa. Nonostante le proteste dell’altro, Vatanen scende dall’auto e si inoltra nella foresta per soccorrerla… Non farà più ritorno. Da quel momento, piantando in asso un lavoro che detesta e una moglie che detesta anche di più, comincia a viaggiare per la Finlandia, con la lepre (che è un maschietto e ben presto guarisce), mantenendosi grazie ai lavori più disparati e vivendo ogni sorta di avventura e incontro. Dal vecchio pescatore – che gli racconta la sua teoria cospiratoria sulla vera identità del presidente finlandese – al prete che si mette a sparare in chiesa, dalla lotta con il corvo che gli ruba il cibo all’inseguimento dell’orso che lo porta a sconfinare in Unione Sovietica, sono tanti i personaggi e le situazioni al limite del grottesco in cui si imbatte Vatanen. Sempre con la sua inseparabile lepre, ovvio.

Un giornalista che lo incontrerà dirà di lui:

A mio avviso, le imprese di Vatanen rivelano il suo spirito rivoluzionario, autenticamente sovversivo: qui sta la sua grandezza.

Devo confessarlo, non avevo mai letto nulla di Arto Paasilinna. Arrivo tardi, a qualche mese dalla sua morte, ma immagino che il migliore omaggio che io possa fargli sia proprio di leggere ora tutto quello che ha scritto. E non fatico a credere che L’anno della lepre sia un cult in Finlandia da quarant’anni e che ne abbiano tratto anche due film. È una perla, dissacrante e poetica al tempo stesso, con dentro il puro spirito di una terra affascinante. E per quanto paradossale, dichiara l’aspirazione alla libertà, alla fuga dalle gabbie imposte dalla società, a una comprensione più viscerale e profonda della natura.

Insomma diverte, appassiona, fa riflettere. Vatanen e la sua lepre resteranno una delle mie coppie letterarie preferite in assoluto.

Non vi dico in quale punto della storia si legge questa frase, ma…

Vatanen e la lepre erano evasi

… capite cosa intendo?

Con quei due non si scherza.

(Edizioni: Iperborea

Traduzione di E. Boella

Titolo originale: Janiksen vuosi

Pagine 208 )