Le confessioni di Frannie Langton: del nero e del bianco, del rosso come il sangue, dell’amore, che ha più sfumature

E cosa fanno due donne in una stanza tutta per loro? Non è forse questa la domanda che turba di più i miei accusatori?

C’è qualcosa di molto seducente in questa storia. Una seduzione di stampo gotico, oscura e insieme dolce. Quel senso di passione profonda che  rievoca velluti e intimità nascoste, mescolato all’inquietudine generata da ciò che è corrotto e deviato. Me ne sono innamorata.

Un uomo scrive per distinguersi dalla storia collettiva. Una donna per poterne far parte. Quali sono le mie intenzioni nello scrivere queste pagine? La risposta è semplice: si tratta della mia vita, e voglio essere io stessa a metterne insieme i pezzi.

Incontriamo Frances Langton nel carcere londinese di Newgate. Sta per essere processata per omicidio plurimo, rischia la condanna a morte. Su richiesta del suo avvocato difensore, in cerca di appigli per aiutarla, si mette a scrivere la propria verità, racconta di se stessa, sin dall’infanzia. È nata schiava ma è istruita e con un passato molto più complicato di quel che si potrebbe credere.

Le confessioni di Frannie Langton è quindi un thriller storico? Una storia di delitti, sangue e misteri?

Questa però è una storia d’amore, e non solo la cronaca di un assassinio, anche se non so se è la storia che ti aspetti.

Sì, questa è anche, forse soprattutto, una storia d’amore. Un amore proibito in praticamente tutti i modi possibili, tragico sin dall’inizio. Nella Londra del primo Ottocento, la passione nasce fra due donne, una mulatta e una bianca, una cameriera che è stata schiava e la sua padrona. Una presunta omicida e la sua vittima. Nessun incauto spoiler da parte mia: il lettore sa fin dalle prime pagine che Frances è accusata di avere ucciso la sua Madame. E sa che lei l’amava.

Io avevo un ago di felicità nel petto, un dolore così acuto che temevo potesse uccidermi, la mente ancora infuocata da ciò che Madame e io stavamo facendo fino a pochi minuti prima.

Ho amato molto questa relazione già segnata, priva di equilibrio eppure così perfetta. Frances, impetuosa, introversa, indurita dall’esistenza ma anche capace di un amore spontaneo, affamato, sfacciato nella sua purezza. E Meg – Madame – affascinante e fragile, colma di contraddizioni e vuoti da riempire, bella e interessante come il quadro di un pittore ribelle, come il demonio. E come il demonio, pare, altrettanto dolce. Separate dalle origini e dalle circostanze, ma anche ugualmente prigioniere della loro condizione, del loro genere, degli obblighi e della solitudine. Sara Collins ha saputo costruire fra loro qualcosa di carnale, delicato e intossicante. Qualcosa che, nel bene e nel male, assomiglia all’oppio, da cui entrambe le donne sono dipendenti.

Prima che cominci a divorarti dall’interno, l’oppio è come una fiamma. È pura energia, e nello stesso tempo calma assoluta. Contrae le maglie del cervello. La gioia si trasforma in estasi. Ma la cosa migliore è che fa defluire via il mondo.

In questo libro, però, oltre alla passione e al mistero, ci sono anche disturbanti, acuti spunti di riflessione sul razzismo e sulla diversità. Si parla di sperimentazioni sulle persone nere per scoprire e confermare differenze fisiche, cerebrali e cognitive, e sono pagine davvero inquietanti. Il velo di mistero sulle atrocità a cui Frances ha dovuto assistere in Giamaica le rende ancora più spaventose e aberranti. Bastano pochi dettagli, barlumi di procedimenti indicibili nel segreto di un capanno e la pelle si accapona, il senso di orrore è inevitabile.

Sapevo anche troppo bene che gli occhi hanno solo due scelte. Aprirsi o chiudersi. Quando si spalancano troppo e diventano troppo neri, è perché non possono fare spazio a tutto ciò che hanno visto.

Le confessioni di Frannie Langton è, alla fine, la storia dolorosa e struggente di una donna, la cui voce ci raggiunge attraverso il tempo e le pagine e ci racconta cosa significa essere tutto ciò che il mondo e gli uomini ritengono sbagliato. Merita di essere ascoltata.

Ebbene, la mia colpa è questa: sono una donna che si è innamorata di un’altra donna, il peggiore tra i peccati femminili, insieme alla sterilità e al raziocinio.

(Edizione gennaio 2020: Einaudi

Traduzione di Federica Oddera

Pagine 432 )

Miss Islanda: alla ricerca di uno spazio in cui essere liberi

Metto la macchina da scrivere sul tavolo e inserisco un foglio. Impugno la bacchetta del direttore d’orchestra. Posso accendere una stella nel firmamento nero. Posso anche spegnerla. Il mondo è una mia invenzione.

E Miss Islanda racconta proprio questo : il bisogno di inventare un nuovo mondo, di crearsi uno spazio in cui poter essere liberi, se stessi, anche soltanto immaginare un luogo della mente in cui trovare respiro.

Lo stile è asciutto ed essenziale, nordico, e ben si accorda con la personalità della voce narrante, Heckla, che ha il nome di un vulcano, e si trasferisce a Reykjavik decisa ad aprirsi una strada come scrittrice, nell’Islanda di sessant’anni fa, ancora fortemente maschilista e patriarcale.

I poeti erano maschi. Dal che avevo imparato a non svelare a nessuno le mie intenzioni.

Heckla porta i pantaloni, dà alla gatta un nome maschile, ammette serenamente di desiderare gli uomini per il loro corpo e rifiuta a più riprese di concorrere per il titolo di Miss Islanda. Soprattutto osserva, da scrittrice autentica, offre poco di sé ma registra con lucidità chi e cosa le sta intorno.

Più fragili e viscerali i suoi amici, ancora più difficile per loro inventarsi un mondo su misura.

Isey, sposata e madre di una bambina piccola, subisce il mondo altrui e ha il terrore di avere tanti figli. Unica via di fuga in un diario, su cui scrive quasi sentendosi in colpa. La sua lotta interiore contro la rassegnazione a una vita ormai prestabilita è toccante, come quando riconosce nella vicina di casa la propria solitudine.

… ho notato che anche la donna stava lì alla finestra della cucina e guardava fuori nel buio. Mi è sembrato che avesse un’espressione molto molto triste. Mi sono vista specchiata nel vetro e anche lei si è specchiata nel vetro di casa sua, due donne insonni, e per un attimo le immagini dei nostri visi si sono sovrapposte e ho avuto come l’impressione che lei fosse nella mia cucina e io nella sua, riesci a farti un’idea della balordaggine che c’è in me?

E poi Jón John, il personaggio che più ho amato. Costretto a fare il marinaio per vivere ma con l’intimo sogno di realizzare costumi per i musical. Il mondo che vorrebbe inventarsi è quello in cui un ragazzo come lui possa liberamente amare altri ragazzi. Non lo crede possibile e si autodefinisce invertito, consumato dall’amara convinzione di non poter vivere la propria sessualità e voglia di amare alla luce del sole.

Conosco diecimila sentimenti, connessi con il vuoto.

Il suo rapporto con Heckla è profondo e delicato quanto lui e probabilmente rappresenta anche il sentimento più vero che lei stessa abbia mai provato. Di certo, a modo loro, si amano e si sostengono. Jón John non crede in se stesso eppure crede in Heckla.

Anche se nel mondo non c’è spazio per un finocchio, Heckla, c’è però spazio per una scrittrice.

Ci si affeziona a questi personaggi, ci si chiede cosa ne sarà di loro. Io non sono riuscita ad abbandonarli e ho divorato il libro in una sera, conquistata.

Il finale può sorprendere o meno, dipende dal punto di vista soggettivo del lettore: la linea che separa e al contempo unisce i sogni e i compromessi può essere molto sottile. Sicuramente l’intera storia offre uno spunto per riflettere su quante cose siano cambiate in sei decenni e quante, dopotutto, non siano poi molto diverse. In ogni caso, oggi, come allora, quel che conta è continuare a battersi, anche fallendo ma mai rinunciando, per quel luogo in cui potremo essere veramente e totalmente noi stessi.

Non posso mollare la presa. Scrivere. È questo che mi tiene ancorata alla vita. Non ho nient’altro. Tutto quello che ho è l’immaginazione.

Edizione settembre 2019: Einaudi

Pagine: 208

Traduzione di Stefano Rosatti

L’Assassino Cieco: un viaggio appassionante lungo tre storie

L’unico modo per scrivere la verità è presumere che quanto annoti non verrà mai letto.

A parlare è Iris, ormai anziana, consapevole che la morte si avvicina. Scrive non sa per chi (ma in realtà sì, lo sa) e ricostruisce la propria lunga vita, sin dall’infanzia, soprattutto il rapporto con la sorella minore Laura.

Da bambina, Laura chiedeva: in Paradiso che età avrò?

Laura, particolare, fragile e ribelle. Morta suicida da giovane e divenuta poi famosa per via della pubblicazione postuma di un suo romanzo. Alle memorie di Iris si alternano quindi stralci di questo libro, che ruota intorno agli incontri clandestini di due amanti senza nome. E, come in una matrioska narrativa, nel romanzo lui racconta a lei la storia che sta scrivendo, una variopinta trama fantasy che ha per protagonista un assassino cieco.

Il tatto viene prima della vista, prima della parola. È il primo linguaggio e l’ultimo, e dice sempre la verità. Ecco come la ragazza che non poteva parlare e l’uomo che non poteva vedere si innamorarono.

Quindi, in pratica, L’assassino cieco è il racconto di un uomo misterioso, dentro il romanzo di una suicida, dentro i ricordi di un’anziana donna. Un intreccio complesso che poteva facilmente sfuggire di mano, diventare dispersivo, smarrire per strada l’attenzione del lettore. Ma se l’autrice è Margaret Atwood allora succede che ne esce un’opera poderosa ed intima allo stesso tempo, fluida, scorrevole, avvolgente. Seguire le tre vicende è un’avventura, scoprendo via via quanto profondamente – molto più di quel che si poteva presumere all’inizio – siano legate l’una all’altra.

Perché vogliamo con tale ostinazione commemorare noi stessi? Perfino mentre siamo ancora vivi. Desideriamo affermare la nostra esistenza, come i cani che fanno la pipì sugli idranti antincendio.

È così che ho conosciuto la scrittura pungente e affilata di Margaret Atwood: non ho ancora letto il famoso Racconto dell’Ancella di cui proprio in questi giorni è uscito l’attesissimo seguito, I Testamenti, ma ho trascorso buona parte della primavera e dell’inizio dell’estate in compagnia della lucida, amara ironia di Iris e delle disincantate conversazioni dei due amanti, in luoghi e tempi sempre diversi, avanti e indietro negli anni e nei sogni, fuori e dentro dalla realtà e dalla fantasia.

I francesi se ne intendono di tristezza, ne conoscono di tutti i tipi. È per questo che hanno i bidè.

Amabilmente corrosivo lo stile dell’autrice, mi ha fatto innamorare di lei: nessuna banalità, nessuna retorica romantica, il suo sguardo sugli affetti, il matrimonio, il sesso, la maternità, la natura umana, è diretto e sincero, senza filtri e abbellimenti. Nessuna concessione, la vita è questa, lettore, vediamo di farcene subito una ragione.

Mi sento sempre più come una lettera – depositata qui, raccolta là. Ma una lettera senza destinatario.

In particolare ho amato il modo in cui Iris parla della proprio vecchiaia, con tutti i sentimenti contrastanti che genera, le paure, le frustrazioni.

Dopo che ci si è imposto da egomaniaco qual è, facendo un gran chiasso attorno ai propri bisogni, imponendoci i suoi sordidi e pericolosi desideri, lo scherzo finale del corpo è semplicemente assentarsi. Proprio quando ne hai più bisogno, proprio quando ti serve un braccio o una gamba, all’improvviso il corpo ha altre cose da fare.

Così brutalmente chiara, Iris, di fronte al mondo che cambia, agli errori, alle verità mai dette e che vanno finalmente rivelate, forse a tutti, forse a nessuno, soprattutto a se stessa. Consapevole del valore e del potere della parola.

Le cose scritte possono fare molto male. Troppo spesso la gente non ne tiene conto.

Può non essere una lettura semplice, sono pur sempre più di cinquecento pagine, ma si tratta di un lungo viaggio di cui non ci si pente. Perlomeno per me ne è valsa la pena. E alla fine mi è dispiaciuto separarmi da Iris, era diventata una voce amica. So dove ritrovarla.

Ma lascio me stessa nelle tue mani. Quale altra scelta ho? Quando leggerai quest’ultima pagina, quello – se mai mi troverò da qualche parte è l’unico posto in cui sarò.

(Editore: Ponte Alle Grazie

Traduzione di Raffaella Belletti

Titolo originale: The blind assassin

Pagine 552)

La memoria della cenere: la vita trova sempre il modo per accorciare la distanza

La distanza. Una delle sue forme, delle declinazioni possibili. La prima, a ben vedere. La distanza posta tra me e la vita per navigarla, non esserne mangiata viva, restituirla. La distanza messa di traverso tra me e gli altri per farlo: io dentro, voi tutti fuori a farvi guardare, mancare. Perché io qui sono sola e voi invece insieme stretti uniti sulla superficie dei nostri mondi.

Una scrittura che si dilata nel dentro e nel fuori, quella di Chiara Marchelli. Scende nel profondo dei sentimenti e dei pensieri dei personaggi ma sa spingersi anche all’esterno, in descrizioni di realistico impatto. Non tutti gli scrittori ne sono capaci, non con lo stesso grado di intensità e coinvolgimento. Qui tutto ha il medesimo potere di presa sul lettore.

Il dentro, un aneurisma che arriva a cambiare la vita di una scrittrice italiana, Elena, da anni newyorchese d’adozione insieme al compagno francese. Da quel brusco, pauroso cambiamento fisico si innesca una catena di cambiamenti emotivi ed esistenziali. Chiunque si sia confrontato anche in minima parte con la malattia, la consapevolezza della mortalità, del tempo che si accorcia e non ritorna, conosce bene la confusione psicologica che ne deriva.

Il fuori, un vulcano, poco distante dal paese del compagno di Elena, in Francia, che eruttando costringe la coppia e i genitori di lei a una convivenza forzata, a riflessioni scomode, a scoprire il non detto e il taciuto.

Dentro e fuori che si sovrappongono, si mescolano, si scambiano. Quel dentro che Elena vorrebbe riuscire a riversare sulla carta, tornando a scrivere, poche pagine alla volta. Quel dentro che deve guarire, trovare l’aria da respirare, liberarsi, in qualche modo anche assolversi. E quel fuori così vivido e vero, tanto che leggendo si sente la cenere nell’aria e lo spettacolo dell’eruzione è davanti ai nostri occhi, come se davvero potessimo affacciarci alla finestra e trovarlo lì, magnifico e terribile.

La memoria della cenere mi è parsa una storia sulla distanza. Quella che si mette tra noi e le nostre origini, le nostre scelte, la paura, le persone a noi più vicine, per non ammettere le loro e le nostre fragilità, per protezione, per mille e mille motivi che ognuno può adattare alla propria esperienza.

Poi la vita – un aneurisma, un vulcano, tutto può essere – cambia i parametri, accorcia questa distanza accuratamente spianata, ci imprigiona a stretto contatto con ciò che temiamo, che non avevamo considerato o non vogliamo guardare troppo nei dettagli.

Vivo da sempre nello stesso posto ma non serve andarsene per poter comprendere il senso della distanza. Io lo conoscevo già da molto piccola, l’ho coltivato consapevolmente. Per questo ho riconosciuto anche qualcosa di mio in Elena, nella cenere, in quella pagine da riempire.

Anche io ho le mie.

Tutto si ripete simile a se stesso per non confonderci troppo》 aveva sorriso quel pomeriggio 《anche se poi ci confondiamo ugualmente》

Edizione: NNEditore

Pagine 296

Less: come si fa a non amarlo?

Sia benedetto Arthur Less, davvero. Quante risate, dolci e amare, mi ha regalato. Abbiamo trascorso insieme alcune notti, in giro per il mondo, con i nostri bagagli scomodi non poi molto dissimili e la conseguente scia di voli pindarici e inevitabili, patetiche riflessioni.

Assomiglia un po’ a un romanzo di viaggi ottocentesco, Less, uno di quelli in cui i personaggi partivano per lunghe peregrinazioni nelle città d’arte europee e intanto, tra carrozze e crinoline, si sviluppavano intrecci, educazioni sentimentali, epifanie esistenziali.

Anche se non oso immaginare a quali pasticci e traversie sarebbe andato incontro Arthur Less viaggiando nell’Ottocento…

proprio perché ha paura di tutto, nulla gli risulta più difficile di qualcos’altro. Fare il giro del mondo non lo terrorizza più che comprare un pacchetto di gomme. La dose quotidiana di coraggio.

Ho amato Arthur perché è uno di noi. Noi, gli eterni insicuri, quelli che convivono per tutta la vita con il senso di inadeguatezza, con la paura di sbagliare, con l’ansia. Noi che siamo goffi e ci complichiamo il percorso anche su una strada sgombra e diritta. Non possiamo farne a meno. E siamo anche piuttosto ciechi, con i paraocchi come i cavalli da tiro: raramente ci accorgiamo dello sguardo di chi riesce ad apprezzarci. Se ce ne rendiamo conto spesso non ci crediamo, perché ci aspettiamo sempre la fregatura nascosta (o un ago nel piede, fate voi). Less si crede un inetto. Un cattivo scrittore, un cattivo amico, un cattivo amante. A un certo punto lo convincono pure di essere un cattivo gay (e ammetto che sul giardino dei cattivi gay ho riso per dieci minuti, perché davvero solo lui poteva immaginarsi un luogo simile). Non è nessuna di queste cose in realtà, ma non lo sa.

La città della giovinezza, la campagna dell’età avanzata. Ma in mezzo dove sta vivendo ora Less, in questa periferia residenziale dell’esistenza? Com’è che non ha mai imparato ad abitarla?

E l’ansia del cinquantesimo compleanno. Non ci sono poi tanto lontana nemmeno io e quindi, caro Less, quanto ti ho capito anche in questo. Tutta quella strada alle nostre spalle, passata incredibilmente in fretta, e l’incognita del percorso che ci attende, noi che abbiamo ancora l’incertezza dei ragazzini ma non lo siamo più.

Less ha vinto il Pulitzer 2018: non scelgo i libri in base ai premi, né seguo granché i criteri con cui vengono assegnati, ma posso dire che Andrew Sean Greer ha scritto una storia che mi ha sinceramente divertita, mi ha fatto riflettere e che mi è dispiaciuto di aver finito giunta all’ultima pagina. Una storia che mi fa questo effetto per me ha già vinto tutto.

E a proposito del finale – che non svelo- resta uno dei più delicati e teneri che mi sia capitato di leggere da molto tempo. E anche inaspettato, perché, trascinata dalle peripezie tragicomiche di Arthur, ed assomigliandogli molto, proprio non avevo capito qualcosa che il resto del mondo, tranne noi due, forse aveva intuito dall’inizio.

Insomma è stato davvero bello viaggiare con Less, principe ereditario dell’innocenza. Che, a dispetto di tutti i difetti veri e presunti, non rinuncia mai a sognare. Un sognatore, uno vero, magari vestito di blu (blu lessiano!), come si fa a non amarlo?

(Edizioni: La Nave di Teseo

Traduzione di Elena Dal Pra

Titolo originale: Less: a novel

Pagine 292)