Chicago: il mondo è un circo

Dopo il debutto del 5 ottobre 2023 e un intero mese di repliche al Teatro Nazionale di Milano, Chicago – la nuova produzione firmata Stage Entertainment, per la regia di Chiara Noschese – ha appena iniziato il suo tour, partendo da Trieste e Gorizia. È giunto per me il momento di tirare un po’ le somme e dire la mia.

Faccio una doverosa premessa: Chicago non è mai stato fra i miei musical preferiti. Pur amandone molto alcuni singoli brani (su tutti l’iconico Cell block tango e lo splendido Mr Cellophane), l’ho sempre percepito come uno spettacolo cupo, anche nei colori, che un po’ mi deprimeva e respingeva. Vale lo stesso per il film. Così, quando durante la conferenza stampa di presentazione, la Stage Entertainment e Chiara Noschese hanno annunciato che la loro versione sarebbe stata uno spettacolo no replica (in cui quindi non è possibile replicare ciò che è già stato fatto) e in stile circense, le mie aspettative si sono alzate di parecchio. Non sono una purista, mi piacciono la sperimentazione e la reinvenzione, né mi turbano particolarmente le traduzioni italiane o l’assenza di un’orchestra dal vivo. Per me ciò che conta è che, anche tra mille trasformazioni, venga mantenuta l’anima di uno spettacolo e che vederlo mi porti via, mi faccia dimenticare dove sto, mi emozioni. Ecco, credo che Chicago ci sia riuscito e vi spiegherò perché.

Chiara Noschese è Mama Morton

Il Chicago di Chiara Noschese – che oltre a dirigere, interpreta anche una fantastica e molto divertente Mama Morton – ha un ritmo veloce e grintoso, pulsa di colori intensi, strizza un po’ l’occhio ai toni sgargianti di Moulin Rouge e racconta di anni Venti davvero ruggenti, molto glamour. L’ambientazione a tema circense aggiunge un tocco surreale e poetico. La vita, la giustizia, tutto è un circo, in cui i partecipanti gareggiano senza troppe remore o rimorsi per guadagnarsi i famosi, effimeri quindici minuti di celebrità, destinati a durare lo spazio tra una prima pagina e l’altra. Finire in un anonimo trafiletto è questione di un attimo. In questa gara tutti in fondo sono perdenti ma a soccombere sono soprattutto i più fragili e indifesi. Tra i colori e i lustrini, quindi, tutto il cuore oscuro del Chicago originale c’è ancora. L’essenza è mantenuta ma la nuova regia l’ha vestita di intrattenimento, costumi vivaci e nasi rossi da clown.

Oltre alla già citata Mama Morton dalla chioma rossa di Chiara Noschese (e che voce!), lo spettacolo si avvale di un cast di altissimo livello e la trama si regge soprattutto sui personaggi di Roxy Hart e Billy Flynn, rispettivamente la detenuta al centro della storia, in attesa di essere processata per l’omicidio dell’amante, e il suo avvocato, fascinoso incantatore e manipolatore.

Giulia Sol è Roxy Hart

La Roxy di Giulia Sol è deliziosa, sembra scritta apposta per lei: oltre alla piena padronanza del canto e della danza, sa trasmettere con efficacia la totale mancanza di morale del personaggio, la sua ansia di conquistare il pubblico e rimanere in vetta, rendendola però allo stesso tempo irresistibile, divertente e accattivante.

Brian Boccuni è Billy Flynn

Bian Broccuni conferisce al suo Billy Flynn una seduttività da pifferaio magico, con il sorriso luccicoso a metà tra star del cinema e abile baro al tavolo da poker. Un po’ Rhett Butler, un po’ presentatore di telequiz (come dicevano in un vecchio film). Grande presenza scenica, la sua, ottimo nel canto e nei tempi comici, con trascinante ironia. Anche nel suo caso il ruolo gli sta a pennello.

Devo fare un discorso a parte per il personaggio di Amos Hart, l’infelice marito di Roxy, a cui tocca in sorte uno dei miei pezzi preferiti, Mr Cellophane. Magari non tutti, ma tanti di noi – alzo la mano per prima- ci sentiamo o ci siamo sentiti almeno una volta come Amos, invisibili, non considerati. Perché la visibilità che desidera Amos non è quella della fama, ma semplicemente quella di essere riconosciuto come essere umano. Così Mr Cellophane è un brano che può toccare corde intime e personali in tanti modi diversi e lo ritengo una grande responsabilità per chi lo porta in scena.

Cristian Ruiz è Amos Hart

Confidavo per questo in Cristian Ruiz e non mi sbagliavo. In una delle migliori interpretazioni della sua carriera, dona al personaggio un’umanità disarmante, una tenera goffaggine a cui non si può resistere. E anche una delicata, commovente dignità. Il momento di Mr Cellophane diventa pura poesia, struggente, arrabbiata. Vale da solo il prezzo del biglietto.

Luca Giacomelli Ferrarini è Mary Sunshine

Un altro fiore all’occhiello di questa produzione è di certo la partecipazione di Luca Giacomelli Ferrarini negli elegantissimi panni en travesti della giornalista Mary Sunshine, bella come una diva dei telefoni bianchi e infatuata di Billy Flynn. I commenti che ho letto e sentito sulla sua interpretazione sono un susseguirsi di pazzesco, incredibile, da lasciare senza parole. C’è chi arriva persino a dubitare che sia veramente un uomo a cantare con quella voce strabiliante che tocca note altissime. Dopo tanti ruoli in maggioranza drammatici, finalmente Luca Giacomelli Ferrarini può mettere in risalto il suo lato brillante e riesce ad ammaliare e divertire, divertendosi a sua volta. Ci si innamora della sua Mary. E di colpo si è attratti inesorabilmente dal rosa lampone.

Stefania Rocca è Velma Kelly

In mezzo a tutti questi performer di prima classe del musical, trovo comprensibile che una seppur brava attrice come Stefania Rocca – che performer di musical non è- si ritrovi in difficoltà. La sua Velma Kelly mi ha dato l’impressione di essere un po’ smarrita, come se fosse una guest star e non una protagonista. A livello canoro e nella danza il divario con gli altri mi è parso evidente, nonostante l’impegno. Preciso che io ho visto lo spettacolo alla sua seconda replica e auspico per lei che Stefania Rocca guadagni in sicurezza e dimestichezza con il tempo, ma la scelta di casting dovuta all’idea di attirare pubblico con un nome “famoso” mi pare sempre un’arma a doppio taglio e forse una consuetudine di molte produzioni su cui sarebbe necessario riflettere. Alla Stage Entertainment va comunque dato atto di puntare sempre su spettacoli che vogliono esaltare la qualità italiana, sia davanti che dietro le quinte. Già per questo si merita un applauso.

E parlando di grande qualità, scelgo l’immagine di un momento particolarmente toccante dello spettacolo per sottolineare la bravura del fantastico ensemble, composto da Pietro Mattarelli, Federica Basso, Giovanni Abbracciavento, Camilla Esposito, Mattia Fazioli, Anna Foria, Alfonso Maria Mottola, Lorissa Mullishi, Kevin Peci, Vittoria Sardo, Andrea Spata, Carolina Sisto, Raffaele Rudilosso, Camilla Tappi, Ilario Castagnola e Veronica Barchielli. Molti di loro arrivano dalle migliori accademie di musical del nostro paese e si vede. Tutti impeccabili e carismatici. Grazie a loro le nuove coreografie di Franco Miseria risultano messe in risalto e molto coinvolgenti. E sì, non sono le classiche coreografie di Bob Fosse, ma, con tutto il rispetto per il grande maestro, quelle di Miseria sono perfette per questa versione, in linea con la sua diversa personalità.

Segnalo anche i costumi di Ivan Stefanutti, le scene di Lele Moreschi, il disegno luci di Francesco Vignati e la traduzione – che non fa rimpiangere i testi originali – di Giorgio Calabrese.

Insomma per me Chicago è promosso e sono contenta che la sua avventura sia solo all’inizio. Il tour proseguirà infatti a Bologna e a Roma, per poi ritornare a Milano da metà dicembre fino a fine gennaio. Quindi, da febbraio ad aprile, sarà la volta delle tappe di Montecatini, Firenze, Torino, Forlì, Lugano (Svizzera), Brescia, Assisi, Pescara, Catania, Palermo, Varese, Parma, Genova e Bolzano.

Vi consiglio di cercare la tappa nella città più vicina a voi e di regalarvi una scintillante serata con questa storia dal cuore nero ricoperto di paillettes.

Il mondo è un circo, come nella realtà, ma almeno in teatro diventa magia.

(Fotografie di Alessandro Pinna e tratte dalle pagine web dello spettacolo e del teatro Nazionale)

Le metro invisibili: un viaggio in “stereo” dentro Milano e dentro di noi

E se il tempo non fosse una linea di eventi, ma un punto?

Esce oggi il primo libro di Mico Argirò, che ho avuto la possibilità di leggere in anteprima. L’autore è un cantautore e un musicista e si vede, perché questa storia è forse come una lunga canzone, un flusso di coscienza su un pentagramma. In effetti le sue stesse pagine a livello visivo potrebbero far pensare a una sorta di spartito: Mico Argirò ha infatti ideato quella che lui definisce scrittura stereo e ogni pagina è divisa in tre spazi paralleli, con l’intento di restituire le diverse percezioni sensoriali del protagonista, le stesse sensazioni che ognuno di noi sperimenta mentre si muove fra gli altri, un misto di impressioni uditive, visive, emotive, sprazzi di ricordi, pensieri sparsi.

Davvero interessante come espediente. Chissà se si potrebbe applicare a un testo più complesso, ma di certo funziona bene con questo, che, come dicevo, è un flusso di coscienza, frammentato e musicale. Si tratta di un percorso, reale e onirico, all’esterno e all’interno. Il protagonista, voce narrante, vaga per Milano, muovendosi attraverso le varie stazioni della metropolitana. Percorre la città e i meandri di se stesso, alla ricerca di una misteriosa lei che ha perduto e anche di un senso, di risposte e nuove domande, direzioni, desideri.

Mi è parso quasi un viaggio dantesco, in solitudine. Milano non è l’inferno, ma neanche un paradiso. Direi che assomiglia più a un purgatorio, piena di una folla variopinta e distratta, impegnata ad uscire e ad entrare dai tornelli dei binari. Ogni capitolo una fermata, atmosfere e persone diverse, una Milano che si staglia ogni volta autentica e molto ben descritta, nei suoi colori, nelle contraddizioni, nella varietà di quartieri, odori, sapori. Varie fermate mi sono note, le ho riconosciute e ritrovate nelle loro peculiarità.

Ma c’è anche una Milano sognata, mitologica, dove si fanno incontri impossibili, anche illustri (li scoprirete leggendo) e si filosofeggia riflettendo sul tempo che scorre, la fiducia da ritrovare. Personalmente mi è piaciuto l’incontro al Monumentale, con un’anima speciale.

Ringrazio Mico Argirò per avermi proposto Le metro invisibili in anteprima. Il suo è un esordio originale, il cui pregio principale è soprattutto nella voglia di sperimentare una forma diversa di racconto, che risulta immersiva per il lettore, lo spinge a partecipare, a riflettere sulle varie sollecitazioni sensoriali. Complimenti davvero per l’idea.

E per fruirne appieno consiglio una lettura filata, senza fermarsi. Il libro è breve, lo consente. Scendete con il protagonista nella metropolitana di Milano, guardatevi intorno, osservate. Osservatevi.

E se, con un rumore bianco, si potesse passare da una realtà a un’altra?

(Edizione Underground novembre 2023

Pagine 122)

Romeo e Giulietta-Ama e cambia il mondo: dieci anni fa iniziava un grande viaggio

Fotografia di Franca Bersanetti Bucci

Dieci anni.

Che sembrano la metà e il doppio, per quanto veloci ma intensi sono trascorsi.

Dieci anni fa, il 2 ottobre 2013, Romeo e Giulietta-Ama e Cambia il Mondo, prodotto da David Zard, con la regia di Giuliano Peparini, debuttava all’Arena di Verona e la sera dopo, il 3 ottobre, arrivava in tv, in diretta. Io avevo un impegno, lo registrai, per poi guardarmelo nel pomeriggio del 4 ottobre.

E qui nascono immediate riflessioni alla sliding doors… Noioso e inutile raccontare perché abbia deciso, quel giorno fatidico, di registrare lo spettacolo, ma se non lo avessi fatto? Se non lo avessi visto o avessi persino ignorato la sua esistenza? Sarei la stessa persona che sono ora?

Difficile spiegare le emozioni di quei primi tempi. Romeo e Giulietta generò una sorta di euforia collettiva. Ricordo il mio primo viaggio, agitata come una bambina anche se avevo passato i quaranta, la folla del Gran Teatro di Roma, lo spettacolo visto dalla prima fila, in un turbine di colori, suoni, sensazioni… L’unica foto che pubblico qui è proprio di quel sabato di metà novembre, durante il leggendario reprise finale, che trascinava sempre gli spettatori ammaliati sotto palco, tutti a cantare insieme ‘Siamo i re del mondo‘. Allora si trattava di una magia particolarmente speciale, quella dell’inizio, quando mi pareva tutto favoloso ed enorme e credevo che si sarebbe fermato lì, al sogno di una sera, da conservare tra due pagine di memoria.

E invece no. Dopo quella sera ce ne sono state molte altre. Molte città, molti teatri. Ho rivisto lo spettacolo ventitré volte, tra il 2013 e il 2018. Solo la punta dell’iceberg, comunque, perché Romeo e Giulietta è andato oltre se stesso, ha aperto porte e creato strade, mi ha fatto incontrare persone incredibili, mi ha portata dove nemmeno concepivo di voler andare. So che non vale solo per me. So che tanti, in mille maniere diverse e personali, pensano e provano le stesse cose. So che Romeo e Giulietta-Ama e Cambia il Mondo ha davvero cambiato il mondo di tanti di noi.

Questo vorrei dire, che l’arte davvero è in grado di cambiarci, che davvero uno spettacolo, un attore, un personaggio, l’incontro con la magia di un’opera, possono stravolgerci, modificarci, ricrearci.

E quindi sì, se quel 3 ottobre 2013 non avessi registrato Romeo e Giulietta, ora sarei una persona diversa. E non mi interessa sapere chi. Sono troppo presa dal viaggio iniziato dieci anni fa, che continua tuttora, perché quando l’arte ti cambia il mondo te lo cambia per sempre. Non puoi, non vuoi fermarti. Finché hai treni da prendere, debutti da attendere, storie da ascoltare e immaginare. Arte da condividere.

Chiudo queste righe, un po’ confuse ma molto sincere, con uno dei ricordi più significativi. Una sera di maggio, l’Arena di Verona piena di palloncini blu, rossi e bianchi. Chi c’era sa di cosa parlo. A chi non c’era chiedo di immaginare questa cosa magnifica: l’intera arena, proprio tutta quanta, piena di quei tre colori festanti, e la commozione del cast, che, dal palco, si trovava davanti questo spettacolo nello spettacolo. Il ringraziamento di un pubblico innamorato.

Questo era Romeo e Giulietta-Ama e Cambia il Mondo. Questo sapeva creare nei cuori della gente. E un po’ mi lascia l’amaro in bocca che il decennale non sia stato celebrato in modo ufficiale. Ma noi, noi che c’eravamo, noi che siamo cambiati e stiamo ancora viaggiando lo celebriamo qui, dentro il petto, dentro i sogni. Dentro la voglia inesauribile di partire per il prossimo teatro, il prossimo sipario.

Grazie.

Ora saremo liberi: quanto cielo può sopportare una vita?

Ebbe il desiderio di pregare, ma lasciò che quella preghiera prendesse la forma di una lenta passeggiata tra i fiori. Qualcuno, pensò, avrebbe dovuto insegnarmi ad accogliere meglio la gioia.

Non so spiegarne con precisione il motivo ma queste parole mi emozionano. Sono le prime che mi vengono sempre in mente quando ripenso a questo libro, letto ormai tre anni fa ma rimasto nel mio cuore. Una scena che coinvolge un personaggio di secondo piano (e che porta in una direzione inattesa), eppure impressa nei miei ricordi. Saper accogliere la gioia non è forse una forma di libertà?

A questo proposito, il titolo del libro è evocativo, benaugurante: Ora saremo liberi. Rammento di averlo scelto perché tradotto dal compianto Sergio Claudio Perroni e già dalle prime pagine mi è stato subito chiaro che lo avrei amato. Mi è bastato l’incipit da romanzo d’altri tempi, una carrozza in una notte di pioggia, e il fascino altrettanto classico del suo malconcio, tormentato protagonista, John Lacroix, di ritorno dalla campagna militare contro Napoleone in Spagna, ferito nel corpo e soprattutto nell’anima. Ad attenderlo, nell’antica dimora di famiglia, solo una governante e una convalescenza in solitudine che sarà di breve durata. I fatti della Spagna, qualcosa di poco chiaro avvenuto laggiù, lo perseguiteranno e dovrà fuggire, in un viaggio pieno di svolte avventurose e incontri, braccato da due inviati dell’esercito britannico e dell’esercito spagnolo, il caporale Calley e il tenente Medina.

La prosa di Andrew Miller è ricca di poesia e potenza descrittiva e i suoi personaggi sono tutti bellissimi, autentici e tridimensionali, colmi come bicchieri troppo pieni di emozioni e imperfetta umanità. Ho amato ognuno di loro, anche l’implacabile Calley, pronto a qualsiasi cosa per portare a termine la propria missione, la solitudine di una vita invisibile diventata un’armatura di aggressività e crudeltà.

Ovviamente vedevo pochissimo, ma ho immaginato tantissimo.

E poi Emily. Lacroix, con l’udito danneggiato dalla guerra, alle isole Ebridi conosce lei, che sta diventando cieca. Un incrocio di strade dissestate che pare davvero orchestrato dal destino. Lei è una donna fuori del comune, parte di un bizzarro gruppetto di liberi pensatori, dal carattere schietto e le idee piuttosto chiare.

Libera? (…) Vi dirò quanto sono libera. Sono una donna nubile non più nel fiore della giovinezza. Sono quella che alcuni chiamano ‘zitella’. I miei risparmi ammontano a meno di sette sterline. Vivo sotto la tutela di mio fratello, e questo significa – sebbene lo ami com’è giusto faccia una sorella – che vivo senza alcun tipo di tutela. (…) Ogni giorno vado perdendo quel che rimane della mia vista, e così finirò presto per perdere quel poco di indipendenza di cui ancora godo. Perciò vi prego di dirmi dove, in tutto ciò, trovate che io sia libera. È forse perché mi tolgo le calze per sguazzare nell’ acqua? Perché vi ho permesso di guardarmi mentre lo facevo? È questa la mia libertà?

Le pagine ambientate a Glasgow, dove Lacroix accompagna Emily per tentare un intervento agli occhi, sono tra le migliori e più suggestive del romanzo. La ricostruzione della realtà ospedaliera dell’epoca è affascinante e sembra di ritrovarsi in un racconto – anche se più crudo e realistico – di Dickens. C’è persino un chirurgo dal cognome italiano (con nonno di Torino e bisnonno di Napoli).

E come scordare l’incontro del caporale Calley con l’ambulante che gli vende un lume per affrontare la traversata a piedi di un tratto di mare mentre c’è la bassa marea: una marea che si alzerà inesorabile di lì a poco e l’unica possibilità è muoversi in linea retta, su quella lingua di terra, sperando di non deviare per sbaglio, privi di punti di riferimento, guidati solo da un lume…

O ancora, a sorprendere per la sua disarmante bellezza, un’alba tra i fiori…

Adesso, stanati dal sole, andavano accendendosi l’uno dopo l’altro. Quelli gialli e quelli bianchi, quelli dorati e quelli rossi, tanto che aveva l’impressione di guardare un campo di piccole luci a galla nell’acqua bassa dell’ombra mattutina.

È così questa storia: un intreccio di vite claudicanti, danneggiate, smarrite, in cerca di riscatto, riconoscimento, speranza, attraversato da questi lampi di meraviglia che anche nei momenti più bui o spietati vengono a ricordare il privilegio e la complessità dell’essere vivi.

Ho sentito parlare poco di Ora saremo liberi, finora non mi è ancora capitato di imbattermi in qualcuno che lo abbia letto e mi sorprende perché a me pare magnifico, superiore a tanti libri dello stesso genere storico sulla bocca di tutti. E il finale… Ecco, io vorrei sviscerare il finale, confrontarmi sul suo significato e sulle sensazioni che mi ha suscitato… Ma solo il vecchio Tom, per ora, potrebbe rispondermi. Lui di sicuro sa.

Chi è il vecchio Tom?

Eh…

La mente di un animale persa lassù. La mente di una persona. Quanto cielo può sopportare una vita?

* Edizione giugno 2020 Bompiani

* Titolo originale: Now we shall be entirely free

* Traduzione di Sergio Claudio Perroni

* Pagine 480

Hypnosis: la mente è una casa maledetta in una palude

La luce non rimane mai a lungo con me – di certo respinta dal buio che ho nell’anima.

Anche se la temperatura di solito è ancora decisamente estiva, quando inizia settembre io entro subito in modalità autunnale e così, quando si è trattato di scegliere la prima lettura di questo mese, sono stata attratta dalla copertina di Hypnosis di Karen Coles, che pareva promettere atmosfere uggiose e gotiche. E in effetti il libro inizia subito con una casa che si dice maledetta, il ricordo di una palude e un manicomio.  Credevo di leggerne solo qualche pagina, per cominciare, e invece è andata a finire che, un capitolo via l’altro, mi sono divorata tutta la storia in un giorno. Non mi capita spesso.

Le infermiere dicono che sono pazza da cinque anni. Lo dicono come se fosse tanto tempo. 《Solo cinque anni?》rispondo. 《Allora dove sono finiti gli altri ventidue?》Loro scrollano le spalle. Non lo sanno, ma non lo so neanche io.

Siamo nei primi del ‘900, nel manicomio di Angelton. Per tutti è Mary ma lei insiste di chiamarsi Maud, non ricorda altro. Sogna di essere inseguita, in notturne acque paludose, e sente di continuo il ticchettare di un orologio e il rintocco tetro di una campana, a volte anche una donna che canta mentre strimpella un pianoforte. La sua vita si riduce alla stanzetta in cui è rinchiusa, intontita dai farmaci. Le attribuiscono un temperamento violento, pare abbia aggredito il direttore, il dottor Womack. Poi arriva un altro medico, il dottor Dimmond (che Maud ribattezzerà Diamond) che comincia a sottoporla a sedute di ipnosi per tentare di riportare alla luce il suo passato e guarirla così dalla follia. L’unico che dimostra di volerla ascoltare e aiutarla. E la memoria di Maud comincia davvero a riaffiorare, come qualcosa che ritorna a galla dal fondo della palude in cui nascosto.

È una fortuna che non riescano a leggermi nella mente, non vedano il fango, lo sporco, i vetri rotti, e le ombre che nascondono Dio sa cosa.

Tutto è narrato solo e soltanto dal punto di vista di Maud e ogni pensiero o ricordo nella sua mente sembra deformato dall’umidità della palude, dall’oscurità del dolore e del senso di colpa. Solo pochissimi lontani frammenti sono alla luce del sole e della gioia. Per il resto ogni cosa è ammantata di ragnatele, circondata da mura ammuffite, abbandonata in luoghi in rovina. Persino l’amore vi compare la prima volta sotto forma di minaccia e resterà sempre in qualche modo intriso di dubbio, macchiato. Le verità che emergeranno da questa desolazione sono abbastanza prevedibili – io perlomeno le ho intuite con largo anticipo – ma il fascino della storia a mio avviso sta proprio nella narrazione di Maud, nel mondo attraverso i suoi occhi, nella sua follia, o presunta tale, che viene restituita con una qualità visiva, fisica, tridimensionale, come se l’universo interiore corrispondesse a quello esteriore. Si entra con Maud dentro gli acquitrini e le stanze dalle finestre sbarrate della sua confusione, delle sue  allucinazioni e della sua  sofferenza.

Non riesco a smettere di fissare quelle creature – per sempre in volo senza arrivare mai.

Nell’ufficio di Dimmond c’è una collezione di insetti intrappolati nell’ambra e Maud ne è attratta, la conducono a sentieri sepolti del passato ma anche alla prigionia di cui è essa stessa vittima. Ed è interessante riflettere sulla facilità con cui in quei tempi si potesse “scomparire” in un manicomio, specialmente se donne e sole. Bastava molto poco, dalla famigerata isteria a semplici disturbi post traumatici, poi l’isolamento, le sedazioni pesanti, le terapie violente conducevano sul serio alla follia. La mente diventava, giorno dopo giorno, una casa sempre più spoglia, sporca, cadente.

Nessuno viene a salvarti. Nessuno è venuto a salvarmi. Mi sono salvata da sola.

Maud si salverà o crederà solo di farlo? Quanto di quello che racconta è reale e quanto è frutto di distorte fantasie?

Ho letto fino alla fine e tuttora ammetto di non esserne sicura. È difficile ricostruire una mente in macerie, circondata dai biancospini e dall’acqua limacciosa della palude. Quanto può sperare di risanarsi un luogo del genere?

Però… però a volte, tra le crepe, nei grigi interstizi, c’è nascosto, custodito con cura, qualcosa di bello e pulito. Qualcosa di salvifico. Un quaderno con i fiori sulla copertina e le pagine bianche, intonse.

* Edizione novembre 2022 Neri Pozza Superbeat

* Titolo originale: The Asylum

*Traduzione di Luigi Maria Sponzilli

*Pagine 288

Follie di Broadway: quattro Stelle per un Maestro

Fotografia tratta dalla pagina Instagram di Yousquare.it

L’estate 2023 si sta avviando alla conclusione e uno dei miei migliori ricordi legati ad essa resterà di certo la sera del primo agosto. Nei Giardini della Filarmonica di Roma le luci coloravano il buio e i grandi alberi di blu e di rosso, in cielo brillava una splendente, teatrale luna piena e il vento fresco di tanto in tanto si univa alla musica, creando la scenografia e l’atmosfera ideali per omaggiare uno dei più grandi autori di musical di tutti i tempi, Andrew Lloyd Webber. Dal recente Bad Cinderella al meno noto Joseph and the amazing technicolor dreamcoat, fino ad Evita, Sunset Boulevard e i successi leggendari di  Cats, Phantom of the Opera e Jesus Christ Superstar, sul palco della rassegna I Solisti del Teatro hanno preso vita i brani indimenticabili degli spettacoli con cui Lloyd Webber ha fatto la storia del teatro musicale, a Broadway e ovunque nel mondo. Tutto ciò grazie a quattro meravigliosi performer, Giulia Fabbri, Luca Giacomelli Ferrarini, Francesca Longhin e Cristian Ruiz, che per due ore hanno intrattenuto il numeroso pubblico con l’abilità di affascinanti cantastorie.

Voglio diventare un po’ cantastorie anche io e raccontarvi le loro esibizioni e il loro talento.

Giulia Fabbri
in “Bad Cinderella”

Se la voce di Giulia Fabbri si può definire luminosa, quella di Francesca Longhin mi fa pensare al vino scuro. Diverse e ugualmente intense, capaci anche a livello espressivo di rendere la complessità di personaggi iconici come Grizabella, Maria Maddalena, Christine Daee, Evita, Norma Desmond: mi sono resa conto di quante figure femminili gigantesche ci siano nei capolavori di Lloyd Webber! E che brani!

Francesca Longhin
in “I don’t know how to love him” (Jesus Christ Superstar)

Giulia Fabbri (che, per la cro, è stata la Mary Poppins italiana ufficiale) non ha temuto i virtuosismi di Think of me e la potenza evocativa di Memory, conquistando applausi entusiasti, e mi è particolarmente piaciuta in Bad Cinderella, mentre Francesca Longhin si è misurata con la struggente passione di I don’t know how to love him e Don’t cry for me Argentina. Il suo momento che ho preferito è stato probabilmente quello di You must love me, poetico e significativo.

Cristian Ruiz
in “Music of the night”
(Phantom of the Opera)

E poi Cristian Ruiz: la sua classe e la sua presenza scenica sono indiscusse, una garanzia. È passato senza apparente sforzo dall’animo tormentato di Ponzio Pilato all’eccentricità di Erode, calandosi nel frattempo nei panni impetuosi del Che. Soprattutto ha incantato gli spettatori con il suo Fantasma, in un’interpretazione elegante e delicata di Music of the night, soffusa di fragilità e di una punta di tristezza.

Luca Giacomelli Ferrarini
e Francesca Longhin
in “All I ask of you”
(Phantom of the Opera)

Se Cristian Ruiz è diventato il Fantasma, Luca Giacomelli Ferrarini è stato il suo romantico rivale Raoul De Chagny (in un bel duetto con Francesca Longhin), tornando anche a indossare la felina, prorompente personalità del gatto rock Rum Tum Tugger, portato in scena proprio nella passata stagione al Sistina. Sempre in tema Cats, ho amato tanto la Ballata di Billy McCaw. Infine quello che ormai è il suo cavallo di battaglia almeno da un decennio, Gethsemane: l’ho ammirato in questo pezzo in innumerevoli occasioni, nel corso degli anni, ma la meraviglia e il coinvolgimento che riesce a suscitare si rinnovano ogni volta.

Luca Giacomelli Ferrarini
in “Gethsemane”
(Jesus Christ Superstar)

E non posso non citare la sua gara di acuti con Giulia Fabbri, sul finale di Phantom of the Opera. Indovinate chi ha vinto.

Giulia Fabbri e
Luca Giacomelli Ferrarini
nel finale di “Phantom of the Opera”

Tutti bellissimi e trascinanti anche i brani di gruppo, in cui i quattro artisti hanno unito le loro caratteristiche così diverse con grande complicità, come nel pezzo di chiusura Jesus Christ Superstar, incalzante e carico di energia: gli spettatori erano tutti in piedi a battere le mani e non dubito che la maggioranza sarebbe rimasta volentieri lì ad ascoltare più di un bis. Fantastico! Il pubblico che partecipa e restituisce le emozioni condivise a chi sta sul palcoscenico è sempre una delle cose migliori delle esperienze dal vivo.

Fotografia tratta dalla pagina Instagram I Solisti del Teatro

Il mio breve piccolo racconto di un ricordo si conclude qui. È trascorso un mese, lo so, ho impiegato tanto tempo per riordinare i pensieri e le parole, ma in fondo credo che la bellezza non abbia una data di scadenza e spero che chiunque leggerà queste righe, magari anche fra un anno, avrà voglia di saperne di più su Luca Giacomelli Ferrarini, Francesca Longhin, Cristian Ruiz e Giulia Fabbri e si andrà a vedere un musical o uno spettacolo con loro. Valgono sempre la pena, fidatevi. Sarebbero piaciuti parecchio anche a Andrew Lloyd Webber.

Anzi, non sa proprio cosa si è perso!

*Lo show è stato prodotto da Pigra – Produzione e Spettacolo

*Parte delle fotografie nel testo sono state realizzate in collaborazione con Elisa Lobina

*Dedico un pensiero alla rassegna I Solisti del Teatro che proprio di recente hanno perso la loro direttrice, Carmen Pignataro

Mozart 2.0, il musical: un inno alla libertà di esprimersi

È un progetto innovativo, sperimentale e giovane, che consente al pubblico di immedesimarsi in ciò che i personaggi provano ma soprattutto in ciò che ognuno di noi porta in scena: un insieme di colori, di emozioni bellissime》

È con queste parole cariche di entusiasmo che la talentuosa performer Elisa Borsoi mi ha presentato Mozart 2.0 – il musical, il nuovissimo spettacolo di cui fa parte e che proprio in questi mesi ha cominciato la propria avventura, iniziando a farsi strada sui palcoscenici italiani.

Fotografia di Sergio Rossi

La realizzazione è a cura della compagnia Corto Circuito e rivisita la storia di Mozart in chiave moderna, ispirandosi  a Mozart Opera Rock, allestimento francese di qualche anno fa. Immagina un Mozart che vive ai giorni nostri e si misura con il mondo e le dinamiche delle case discografiche: oggi come reagirebbe il pubblico al suo genio? Lo capirebbe?

Mattia Cavallari è Mozart/Fotografia di Sergio Rossi

Già nella sua epoca, Mozart era considerato alla stregua di una rockstar》mi ha raccontato Elisa. 《Nel nostro spettacolo, dove è interpretato da Mattia Cavallari, raccontiamo come non abbia mai avuto paura di dire quello in cui credeva. È uno spirito libero, nell’arte e nella vita e con grande forza lotta per esprimere la propria genialità, perché sa che è giusto farlo. E riuscirà a crescere e maturare per il bene della propria musica

Elisa Borsoi è Aloysia Weberg Rosenberg/Fotografia di Sergio Rossi

Il ruolo di Elisa è invece quello di Aloysia Weberg Rosenberg, la prima manager di Mozart, all’inizio con poca esperienza dell’ambiente discografico e poi più navigata, pronta ad utilizzare metodi e mezzi anche discutibili per raggiungere i propri obbiettivi. Un personaggio complesso a cui Elisa si è legata molto.

È molto diversa da me ma lavorandoci ne ho scoperto l’umanità, le ferite interiori. È vera, una donna che vive la propria vita, facendo errori, ammettendoli e affrontando le difficoltà》

Anna Brontesi è Constanze Weber / Fotografia di Sergio Rossi

Aloysia è anche la sorella di Constanze Weber, cantante e moglie di Mozart, interpretata da Anna Brontesi: emblema di dolcezza e caparbietà, sarà un sostegno fondamentale per Mozart e saprà tramandare il suo genio.

Alessandro Zanasi è Leopold Mozart/ Fotografia di Sergio Rossi

Un altro personaggio molto importante per la vicenda e la vita di Mozart è quello di Leopold, suo padre, che ha il volto di Alessandro Zanasi:  fra loro c’è un rapporto complicato, Leopold cerca in ogni modo di aiutare, proteggere e consigliare il figlio, a volte anche sbagliando.

Questo legame padre-figlio è meraviglioso da vedere in scena》

Elisa Borsoi con Enrico Frigo, nel ruolo di Antonio Salieri/ Fotografia di Sergio Rossi

Nel cast non poteva mancare ovviamente la carismatica figura di Antonio Salieri –  interpretato da Enrico Frigo – che in questa versione della storia ricopre il ruolo di narratore: la visione che il pubblico ha dei personaggi è dettata da Salieri, dalla sua analisi psicologica degli altri e di se stesso, ognuno è un po’ un riflesso dei suoi sentimenti.

Elisa mi ha parlato anche di un misterioso sesto personaggio, portato in scena da Anna Bonassi, ovvero l’Ombra… ma per scoprire chi o cosa sia bisogna vedere lo spettacolo, che, dopo il sold out del debutto, il 10 dicembre 2022 a Nave, in provincia di Brescia, torna in scena domani e dopodomani, 10 e 11 febbraio 2023, sempre nel bresciano, a Montichiari.

Fotografia di Sergio Rossi

Aggiungo che lo spettacolo, con i costumi di Lucia Grumi, ha anche un corpo di ballo composto da dodici elementi (l’idea è quella di ampliarlo appena sarà possibile) e che la scelta del coreografo Simone Bonatti e dell’assistente alla coreografia Jennifer Bonatti è quella di unire differenti stili e discipline, mescolando classica, break, modern, ginnastica, pattinaggio e aerea con tessuti.

La musica della band dal vivo è invece guidata dall’arrangiatore Davide Rosa, in chiave rock sperimentale, con un’impronta pop rock. Il vocal coach Luca Stefana, anche produttore esecutivo, ha dato la possibilità ai cantanti/attori di modificare, aggiungere e proporre armonie. Elisa ci tiene a sottolineare come  l’intero team creativo, capitanato dall’autore e regista Elia Paghera, abbia permesso al cast di esprimersi, dare consigli, creare.

Fotografia di Sergio Rossi

Per concludere la nostra bella chiacchierata ho chiesto a Elisa perché Mozart 2.0- il musical sia assolutamente da non perdere.

Il teatro fa bene. Bisogna andarci e vivere dal vivo una storia per poterne capire l’intensità. Le persone devo riabituarsi a questo tipo di emozioni. Il nostro spettacolo è innovativo, fresco e permette soprattutto al pubblico giovane di immedesimarsi. Spesso ci si dimentica un po’ dei giovani, delle loro problematiche. È necessario far conoscere la figura di Mozart e ricordare l’importanza del non arrendersi mai, del risollevarsi quando si cade, del maturare, del crescere, dello sperimentare senza paura. Viviamo in una società in cui molte volte non ci viene concesso di esprimerci, di ammettere gli errori. Le nostre ali vengono tarpate mentre ancora cerchiamo di spiccare il primo volo》

Fotografia di Sergio Rossi

Ringraziando Elisa Borsoi per la disponibilità e soprattutto per l’entusiasmo e la passione che è riuscita a trasmettermi raccontando di questo progetto, vi invito naturalmente a vedere lo spettacolo (potete acquistare i biglietti qui: biglietti di Mozart 2.0 ) e a seguire tutte le novità sulla produzione e le prossime tappe sulla pagina Facebook Mozart il musical e la pagina Instagram Mozart 2.0. Se vi va potete visitare il sito ufficiale Compagnia Corto Circuito .

Mattia Cavallari con Enrico Frigo/ Fotografia di Sergio Rossi

Chiudo con questo messaggio di Elisa, a mio avviso molto bello: 《La cosa importante è che, dopo aver visto Mozart 2.0, si esca dal teatro con la consapevolezza e la speranza di poter fare come Mozart e di non aver mai paura di credere nei propri sogni e in quello che si è》

Il Cerchio di Legno vi aspetta: sta per cominciare un nuovo anno di incontri e arte

Dalla pagina Instagram del Cerchio di Legno

Il Cerchio di Legno apriva per la prima volta le sue porte quattro anni fa, il 9 settembre 2018. Nasceva come luogo fisico, ma il laboratorio teatrale immaginato, voluto e realizzato da Luca Giacomelli Ferrarini e Cristian Ruiz, era e continua ad essere soprattutto un’idea, un ideale, un concetto che coniuga arte, apprendimento e condivisione, solido abbastanza per affrontare gli ostacoli e gli imprevisti che la pandemia, con il suo strascico di conseguenze varie ed eventuali, ha disseminato sulla sua strada. Senza mai perdersi d’animo, i due docenti si sono impegnati con tenacia nel mantenere vivo e vitale il loro progetto e, dopo la pausa estiva, sono pronti a ripartire anche per questa nuova stagione, nel week end del 17 e 18 settembre 2022.

Per omaggiare il Cerchio e magari incuriosire chi non lo conosce, ho pensato di ripercorrere in breve lo scorso anno di lezioni: dieci mesi di incontri in un percorso coinvolgente e variegato che ha spaziato dalla prosa al musical e che ho avuto la fortuna di poter vivere in prima persona (in veste di uditrice) dall’inizio alla fine.

Fotografia di Luca Giacomelli Ferrarini

Il viaggio è cominciato a settembre 2021 con Henrik Ibsen e lo studio approfondito di una scena tratta da Casa di bambola: stagiste di età diverse si sono confrontate in uno dei dialoghi più complessi del dramma, tra due personaggi femminili, Nora Helmer e Kristine Linde, pieni di sfumature da scoprire e interpretare.

È poi stata la volta del fascino visionario e passionale delle Nozze di sangue di Federico Garçia Lorca: un lavoro molto intimo, di cui mi è rimasto un ricordo speciale, in particolare ripensando alla ricostruzione delicata e sentita di uno dei dialoghi fra la Sposa e la domestica.

Lo step successivo ha portato ad uno dei workshop più intensi e impegnativi, quello dedicato a Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht: grande partecipazione da parte di tutti, indimenticabili le interpretazioni dei ruoli di Azdak e Grûza.

E dopo tanta prosa, l’incontro di dicembre 2021 si è basato sul celeberrimo musical Chorus Line: musica, colori, sorprese e una piccola esibizione finale, aperta anche a parenti e amici, che si è rivelata piena di emozioni e commozione.

Fotografia di Luca Giacomelli Ferrarini

Il 2022 si è invece aperto all’insegna delle Allegre comari di Windsor, ma, attenzione, le stagiste non hanno lavorato sul testo di Shakespeare, bensì su quello dell’opera verdiana Falstaff, il cui libretto è firmato da Arrigo Boito: un approccio molto originale che ha dato modo alle allieve di misurarsi con registri recitativi diversi dal solito.

Nei mesi successivi l’insegnamento si è concentrato sul canto e sulla preparazione dell’esibizione con cui far partecipare le allieve allo spettacolo di fine anno della scuola di danza 77bisdance di Verona. Per tale esibizione, Luca Giacomelli Ferrarini e Cristian Ruiz hanno scelto un brano corale del musical Company di Stephen Sondheim, curandone la preparazione canora e la coreografia.

Si parla di Sondheim, quindi di qualcosa di tecnicamente parecchio difficile: le prove, mese dopo mese, sono state una bella e faticosa sfida sia per le allieve che per gli insegnanti. Gli applausi ricevuti sul palco del teatro Camploy di Verona, il 5 giugno 2022, hanno però ripagato degli sforzi fatti e riempito tutti di soddisfazione, comprese noi uditrici in platea.

Dalla pagina Instagram del Cerchio di Legno

Un’avventura lunga un anno si è conclusa in bellezza e credo che chiunque di noi vi abbia preso parte si sia portato via preziosi ricordi e tanta conoscenza in più.

Ora che una nuova stagione sta per cominciare, spero che il mio piccolo resoconto di quel che il Cerchio di Legno è in grado di offrire possa essere utile, incuriosire e magari spingere qualcuno di voi che mi sta leggendo a provare questa esperienza.

Luca Giacomelli Ferrarini e Cristian Ruiz vi aspettano a Verona. Per informazioni visitate la pagina Instagram o la pagina Facebook del Cerchio di Legno.

Fotografia di Franca Bersanetti Bucci

Pensa, credi, sogna e osa – Walt Disney

Mary e il Mostro: un tributo in immagini a una donna incomparabile

Lei non si nascose. Non si lasciò zittire. Lottò contro la crudeltà della natura umana. Scrivendo.

Amando la scrittura fin da bambina, uno dei miei miti letterari è sempre stato la leggendaria riunione di Villa Diodati: quel magico gruppo di grandi menti, tutte insieme, a creare storie, nel giugno del 1816, il cosiddetto anno senza estate. Lord Byron, John William Polidori, Percy Bysshe Shelley e lei, Mary Shelley… ci pensate?

Ah, essere una piccola mosca e poter tornare indietro nel tempo, a svolazzare in quelle stanze, ascoltare i loro discorsi, spiare la nascita di Frankenstein e di Il vampiro

Ricordo che un’emozione simile – quella di ritrovarmi, minuscola come una mosca al cospetto di figure gigantesche e geniali- l’ho provata visitando la Keats-Shelley Memorial House di Roma. Soprattutto sono rimasta senza fiato davanti allo scrittoio da viaggio di Mary Shelley e in particolare alle sue lettere, protette da teche di vetro. Erano lì, sotto i miei occhi, scritte di suo pugno… Che meraviglia!

E che meraviglia anche queste illustrazioni, vero?

Mi rendo conto che le mie fotografie non rendono la loro bellezza dal vivo ma spero possano bastare a darvi un’idea del cupo splendore di questa biografia illustrata di Mary Shelley realizzata da Lita Judge.

In oltre 300 pagine di magnifici disegni in bianco e nero e brevi testi essenziali e poetici, Mary e il Mostro ripercorre tutta la vita di Mary, dall’infanzia e l’adolescenza sino al folgorante incontro con Percy Bysshe Shelley, per proseguire con la loro avventurosa vita insieme, gli ostacoli, i lutti, la tragica morte del poeta, il coraggio della grande autrice.

Particolare enfasi è data alla genesi di Frankenstein, quasi una gestazione, un parto letterario che culmina nella nascita di un legame simbiotico tra la creatrice e la creatura, l’emblema di una diversità e di una lotta contro il pregiudizio e l’isolamento che Mary vive in prima persona.

Tutto il libro è pervaso da un’atmosfera gotica e malinconica, delicata ed elegante, che restituisce appieno la complessità della personalità di Mary, la solitudine e il dolore, ma anche la caparbietà, la passione, l’incredibile talento e la modernità del suo pensiero, quella visione ribelle che l’ha portata in tutti i modi possibili a sfidare la società patriarcale e bigotta e a lasciare un segno indelebile nell’immaginario collettivo. È una piccola opera d’arte e uno struggente tributo a una donna che non ha avuto paura di vivere e creare.

Possiamo incidere sulla vita delle generazioni future, se siamo abbastanza coraggiosi da dispiegare le ali della nostra immaginazione e creare!

Edizione Il Castoro 2018

Titolo originale: Mary’s Monster. Love, Madness, and How Mary Shelley created Frankenstein

Traduzione di Rossella Bernascone

Pagine 312

Nessun dorma: la sfida coraggiosa di un giovane autore in cui vale la pena credere

Il suo talento di interprete e la sua voce non comune sono ben noti nel mondo del teatro musicale nostrano, ma ora il pubblico avrà l’opportunità di conoscere e apprezzare Luca Giacomelli Ferrarini anche come autore e regista di un testo drammaturgico originale. Il 31 maggio 2022 il giovane artista villafranchese ha infatti presentato al M.A.S. Music Art & Show di Milano il suo Nessun Dorma, a cui ha lavorato negli ultimi cinque anni, insieme a Marco Spatuzzi, che ne ha composto le musiche. Lo spettacolo è stato proposto in forma privata, per gli addetti ai lavori e la stampa – un passaggio necessario per arrivare alla distribuzione al pubblico – e ringrazio l’autore/regista per avermi consentito di essere presente, con il mio piccolo blog. È stato un onore e vi racconterò perché questo coraggioso progetto artistico merita lunga vita e i palchi di tanti teatri.

Cristian Ruiz è Giacomo Puccini

Nessun dorma racconta un tragico episodio realmente accaduto e a lungo rimasto nascosto della vita del grande Giacomo Puccini. Una vicenda che ruota intorno al rapporto controverso e viscerale che legava il compositore alla moglie Elvira e che coinvolge una giovanissima domestica della loro casa a Torre del Lago, Doria Manfredi. Luca Giacomelli Ferrarini ha delineato molto bene i personaggi, vitali, solidi, veri, costruendo una trama di forte presa che si regge in buon equilibrio tra i brani musicali e la prosa. I dialoghi colpiscono per la naturalezza e il realismo, portano direttamente dentro la storia.

Floriana Monici è Elvira Bonturi

Le musiche di Marco Spatuzzi sono sempre una garanzia e anche in questo caso si confermano di notevole bellezza, soprattutto nell’uso degli archi, variando dallo struggente e cupo al brioso, sino a momenti di forte impatto emotivo. Le liriche di Luca Giacomelli Ferrarini sono tutte da ascoltare con attenzione, importanti tanto quanto i dialoghi. Le melodie e diverse strofe restano impresse nella memoria. Belle e delicate le citazioni da Suor Angelica, opera centrale del famoso Trittico pucciniano, con un ruolo fondamentale nello spettacolo. Uno dei tratti più affascinanti del testo è infatti la rappresentazione della creazione artistica, il legame tra l’artista e i personaggi che prendono vita dalla sua immaginazione, la ricerca dell’ispirazione, il rapimento creativo che può portare all’isolamento e all’esclusione di chi è più vicino. Ammetto che avrei milioni di domande da porre all’autore su questi temi.

Giulia Fabbri è Doria Manfredi

Di prim’ordine il cast.

Cristian Ruiz è apparso molto a proprio agio nei panni di un Giacomo Puccini dal fascino sicuro e maturo, con una sottile fragilità che emerge nelle sue contraddizioni, la sua solitudine, il suo bisogno di superare il blocco creativo, il suo egocentrismo artistico,  forse il peggior rivale della moglie, ben più delle altre donne. Mi sono piaciuti moltissimo i suoi dialoghi e i duetti con Elvira, interpretata con forza e passione da Floriana Monici, molto brava nel rendere una personalità complessa, dominante e difficile da gestire tanto quanto quella del marito.

In balìa di queste due figure così debordanti e potenti che si cercano e si scontrano, spicca come un fiore l’inesperta e indifesa Doria Manfredi, a cui una vibrante e luminosa Giulia Fabbri ha donato spontaneità, voglia di vivere e sognare, disarmante innocenza. Impossibile non rimanerne toccati e coinvolti, non sperare di poterla proteggere.

Luca Giacomelli Ferrarini è Michele Donati

Per se stesso, Luca Giacomelli Ferrarini ha confezionato un personaggio per lui piuttosto inedito, il semplice e dolce giardiniere Michele, che porta una nota di allegria e tenerezza all’interno del dramma. La sua simpatica goffaggine ha divertito e conquistato il pubblico, accompagnata da un fondo di amarezza e commozione. Credo che molti di noi presenti lo avrebbero volentieri adottato.

Aggiungo che proprio nel ruolo di Michele  l’autore/regista si è concesso una licenza poetica legata al mondo delle fiabe (non scendo in dettagli per non rovinare le future visioni) che, lungi dall’essere fuori luogo, funziona benissimo nell’insieme ed oltretutto gli offre la possibilità di esibirsi in un autentico pezzo di bravura.

Francesca Taverni è la zia principessa

Un discorso a parte va fatto per Angelica e la zia principessa, evocate dalla fantasia di Puccini, che sta componendo Suor Angelica e le sovrappone alle donne reali della sua vita. Sogni, quasi spettri, che conferiscono una sorta di sfumatura gotica all’atmosfera generale. Francesca Taverni, come sempre stratosferica, ha dato vita a una principessa severa e indurita dal dolore, privata della capacità di provare compassione. L’unione della sua voce con quella di Floriana Monici ha strappato brividi.

Noemi Bordi è stata proprio una sorpresa e mi ha rubato il cuore. Una meravigliosa Angelica,  tormentata e bellissima, profondamente sola e commovente. Insieme all’appassionata Doria di Giulia Fabbri ha raggiunto vette davvero strazianti, nella migliore tradizione lirica delle eroine pucciniane.

Noemi Bordi è Suor Angelica

Non vanno dimenticate le scenografie a cui ha collaborato Nicola Zogno. Su uno sfondo blu come un cielo al crepuscolo, la casa dei Puccini a Torre del Lago rivive in una commistione di arredi d’epoca e di linee essenziali più moderne, poste su una piattaforma girevole che rappresenta il vinile di un grammofono e che ruotando fa scorrere gli spazi, i personaggi e gli avvenimenti. L’ho trovata un’idea davvero brillante. Personalmente mi ha fatto pensare anche a una sorta di lanterna magica, che proiettava ombre e voci del passato.

Belli e molto curati anche i costumi di Maria Luisa Mammetti. E, come  sottolineato nella locandina completa, alla realizzazione e alla messa in scena dello spettacolo hanno partecipato Eva Bruno (disegno luci), Mirko Marogna (disegno fonico), Martina Sandri (acconciature) e Serena Sannino (assistente). Ringraziamenti vanno anche a Francesca Longhin, Nicolò Slavik e Adelaide Guglielmi. La maggioranza di loro, così come il cast, ci ha tenuto a testimoniare la volontà e la tenacia di Luca Giacomelli Ferrarini nel concretizzare questo sogno e soprattutto quanto la sua visione di autore e regista sia sempre stata molto chiara e precisa.

Dal mio punto di vista di spettatrice posso dire che questo spettacolo ha caratteristiche che lo rendono apprezzabile sia da un pubblico che ama il musical sia da quello che preferisce la prosa. È una storia tutta italiana che racconta e celebra l’arte italiana e questo lo ritengo un valore aggiunto. Soprattutto ha un’anima che emoziona. Durante la serata il coinvolgimento emotivo in platea era unanime e palpabile. Alla fine ricordo di aver cercato gli occhi della persona accanto a me e ci ho letto gli stessi miei sentimenti. Se un’opera teatrale arriva al cuore di chi guarda per me ha già vinto.

Spero vivamente che Nessun dorma trovi la propria strada e riesca presto ad essere visto e amato da più pubblico possibile. Nel mio piccolo farò del mio meglio per supportarne il percorso. Vi invito a seguire la pagina ufficiale Instagram dello spettacolo per restare aggiornati sulle prossime news.

Concludo con un particolare suggestivo. Come già detto Nessun dorma è stato presentato lo scorso 31 maggio, a Milano. E sempre a Milano, il 31 maggio 1884 veniva presentata Le Villi, la prima opera di Giacomo Puccini.

Ci pensate?

Perché io ci ho pensato.

Nella stessa data, nella stessa città, a centotrentotto anni di distanza, due giovani autori hanno affrontato la loro scommessa. E credo che siano stati capaci di parlarsi.

Le vie dell’Arte sanno incrociarsi in modi sublimi.