Fatevelo dire: esprimete una disperazione che lì fuori nessuno ha capito》

Nasceva oggi, il 19 agosto del 1848, Gustave Caillebotte, pittore francese, uno tra i meno noti fra gli Impressionisti, eppure fondamentale per la nascita e la crescita di questa dirompente corrente artistica, di cui fu anche mecenate e collezionista. È quindi il giorno giusto per parlare di L’uomo senza inverno, che lo scrittore Luigi La Rosa ha dedicato proprio alla figura, sfuggente e discreta, di Caillebotte. Preciso che si tratta di un romanzo e non di una biografia: l’autore stesso lo puntualizza nella prefazione, spiegando che la storia narrata, pur nel rispetto cronologico degli eventi, è opera di invenzione, in particolare per quel che riguarda le vicende personali e sentimentali dell’artista e alcuni personaggi.

La sconosciuta alla finestra, come pure la severa Céleste, e l’uomo in cilindro a passeggio in un giorno di pioggia, e i piallatori, i canottieri, tutti i personaggi che erano usciti dal suo pennello evitavano di guardare dritto negli occhi. Erano tutti alla ricerca di un punto di fuga, un altrove che non si poteva più dire cittadino né umano.

È un’opera di fantasia, certo, ma, credetemi, ha un respiro storico talmente potente e realistico da farci immergere con tutti i nostri sensi e i nostri sogni in un’epoca di incredibile fermento artistico e nel percorso creativo di Caillebotte. La genesi di ogni suo quadro, la nascita degli Inpressionisti, le loro prime mostre, i legami d’arte e d’amicizia tra il pittore e leggende come Monet, Manet, Degas, Renoir e soprattutto l’italiano De Nittis… Tutto questo ci scorre davanti agli occhi capitolo dopo capitolo, come se fossimo lì in persona ad assorbirne colori, suoni, profumi. La Parigi descritta da La Rosa – che molto chiaramente la conosce benissimo- pulsa di vita ed emerge tridimensionale dalle pagine, ma ci sono anche la campagna francese protagonista di molta  pittura impressionista e la terra di fiume tanto amata da Caillebotte, dove si dilettò nella sua passione per il canottaggio.

Una nuova certezza si faceva strada dentro di lui, e più l’altro parlava, più tale certezza guadagnava forma e solidità, ossia che quel quadro sarebbe stato il suo capolavoro, pertanto lo avrebbe difeso e sostenuto anche a dispetto del mondo.

Partecipiamo anche alla creazione di I piallatori di parquet, l’opera probabilmente più straordinaria di Caillebotte. Ho sempre amato tutta la sua produzione ma i suoi piallatori sono un’assoluta meraviglia, qualcosa di inarrivabile. E Luigi La Rosa ci fa immaginare, sognare, intuire come possano aver preso vita. Ci invita a ipotizzare che uno di loro, il più giovane, sia stato l’amante di Caillebotte, mutando il nostro modo di guardarli e percepirli. Arriviamo davvero a credere di vederli attraverso lo sguardo appassionato e tormentato del pittore. Personalmente so che d’ora in poi i piallatori (e anche molti altri quadri di Caillebotte) avranno per me un significato anche più speciale. E devo dare atto a La Rosa della gentilezza e dell’empatia con cui ha tracciato la mappa degli affetti, degli amori e delle difficoltà emotive ed esistenziali di Caillebotte. Ha reso plausibili e concreti il rapporto complesso con i genitori e quello strettissimo col fratello Martial, l’omosessualità vissuta in modo contrastato, lo sforzo di veicolare ed esprimere emozioni, vuoti, desideri attraverso la pittura. Per quanto liberamente interpretato, Gustave Caillebotte attraversa il libro vivo e vibrante e ci tocca il cuore.

Quando riaprì gli occhi, nel cuore della notte, la sola cosa che vide fu la tavola di un cielo buio, senza più confini e senza stelle. Non riusciva ad orientarsi, a comprendere dove fosse finito. Quando i battiti si placarono scese un’immensa pace. Per la prima volta ebbe il sospetto di essere già morto.

Gustave Caillebotte nasceva oggi e non ha avuto una lunga vita, meno di cinquant’anni. I protagonisti delle sue opere guardavano sempre altrove, ma lui, nel suo autoritratto, ci fissa dritto negli occhi. I suoi sono profondi, contengono mondi non condivisi, abissi di riservatezza. Forse è stato davvero un uomo senza inverno, senza quella che secondo Stéphane Mallarmé è la stagione serena e lucida dell’arte. Forse così doveva essere e per questo nei suoi quadri resta un senso di mistero e grazia sospesi. Forse per certi artisti esiste una sola, intensa, indimenticabile stagione.

(Edizione febbraio 2020: Piemme

Pagine 448)

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