Canto della pianura: i percorsi della vita si incrociano ad Holt

Oggi, 5 novembre 2018, esce nelle librerie italiane, grazie ad NN Editore, il libro d’esordio di Kent Haruf, ovvero Vincoli, che torna indietro nel tempo, alle origini della amata Holt, la cittadina immaginaria in cui vive e respira il mondo letterario creato dallo scrittore.

Nell’attesa di poterlo leggere, il prima possibile, faccio anche io un viaggio a Holt, con Canto della Pianura, il primo dei tre libri che compongono la cosiddetta Trilogia della Pianura.

E che bel viaggio, devo dire. Cose che iniziano e cose che finiscono, in questo libro. Nascita e morte, intrecciate, nella loro più cruda e al contempo commovente naturalezza.

Canto della Pianura è per me soprattutto un racconto di scoperta e cambiamento, che ruota in particolare intorno a due coppie di fratelli, gli anziani McPheron e i Guthrie, ancora bambini, le cui vicende personali si snodano in modo speculare e contrapposto.

Da un lato, i giovanissimi Ike e Bobby Guthrie affrontano quello che si potrebbe definire un percorso di iniziazione alle realtà più aspre dell’esistenza: la madre depressa che se ne va da Holt lasciandoli con il padre insegnante, l’impatto crudo con la morte in diverse forme, la prevaricazione e la paura a seguito di un’aggressione, il buio fronteggiato da soli. Piccoli, uniti e pieni di silenziosa dignità.

Era un mese che dormivano nello stesso letto e in quel momento il maggiore aveva una mano posata sulla testa del fratello come se sperasse di scacciare qualcosa che minacciava entrambi.

Dall’altro lato, gli ormai più che maturi e ruvidi Harold e Raymond McPheron, avvezzi ad una vita solitaria di fattori, si sorprendono invece a sperimentare la tenerezza, il senso di protezione, la voglia di comunicare, le piccole gioie di una vita che comincia, grazie a Victoria, una diciassettenne incinta che ha bisogno di un posto in cui essere accolta e che irrompe nel loro quieto, mondo isolato, come potrebbe fare la primavera in un arido inverno.

Due uomini anziani e una ragazza di diciassette anni seduti al tavolo sparecchiato di una sala da pranzo di campagna, dopo cena, mentre fuori, oltre le pareti di casa e le finestre senza tende, un gelido vento del nord scatenava l’ennesima tempesta invernale sugli altipiani.

Curioso contrasto, vero?

Bambini con una famiglia che si spezza. Anziani che ne creano una nuova, inattesa e speciale. Bambini che imparano cosa sia la morte, anziani che incontrano la nascita.

Ma questa è la vita, che fa soffrire dall’inizio e sa meravigliare fino alla fine. E soprattutto questo è Kent Haruf, che la vita sapeva raccontarla nella sua disarmante, speciale normalità, con lucida poesia.

(Edizioni: NN Editore

Traduzione (ottima!!) di Fabio Cremonesi

Titolo originale: Plainsong

Pagine: 304)

Mildred Pierce: il lato in ombra del rapporto madre-figlia

La prima cosa che mi ha colpita di Mildred Pierce è la modernità. Della storia (pubblicata nel 1941) e della protagonista. Siamo nell’America degli anni Trenta ma i problemi e le situazioni vissuti da Mildred sono tuttora attuali. Mildred è infatti una donna che ricomincia da sola, dopo la separazione da un marito che la tradisce: ha grinta e coraggio (oltre a belle gambe e un talento per la pasticceria) e, dopo essersi scontrata con le difficoltà del mondo lavorativo, riesce a crearsi praticamente dal nulla un’attività imprenditoriale, per offrire una vita dignitosa alle due figlie. Impara in fretta, progetta, rischia, osa. Inciampa ma si rialza e cerca soluzioni. Insegue con tenacia i suoi ideali ambiziosi, a volte peccando di umana ingenuità, specie con chi le sta a cuore. Insomma non si può non tifare per lei e devo dare atto a James M.Cain (autore anche del celeberrimo Il postino suona sempre due volte) di aver costruito, da uomo, un personaggio femminile tutt’altro che stereotipato e di averlo raccontato senza caricarlo di pregiudizi maschili.

Tutto questo è però solamente una parte del libro. Mildred Pierce non è solo la storia di una donna che si guadagna la propria indipendenza. L’anima più profonda della vicenda affonda le radici nel rapporto tra Mildred e la figlia maggiore Veda.

… la sua relazione con la figlia continuava a svilupparsi, torturandola paurosamente come una specie di cancro.

Si incontrano a volte storie di genitori e figli in cui viene trattata l’anaffetività materna, mentre questo è il caso contrario: Veda è un esempio spiazzante e disturbante di anafettività filiale.

… i suoi chiari occhi azzurri guardavano […] con una fissità caratteristica di alcune varietà di squali.

Ecco, sì, Veda fa davvero venire in mente uno squalo, a volte. O un vampiro, con la lucida capacità di manipolare i sentimenti e le debolezze altrui – in particolare appunto quelli della madre – e succhiarne energie e quant’altro le possa essere utile.

Leggendo non si può fare a meno di chiedersi se la freddezza priva di scrupoli di Veda, già piuttosto evidente sin dalle prime pagine in cui è ancora ragazzina, sia una caratteristica di natura, innata, o se in parte sia anche un elemento della sua indole alimentato ed esacerbato dall’amore quasi morboso che Mildred ha per lei, nonostante tutto.

Mildred preferì conservare le sue illusioni: rimanere a distanza, godersi sua figlia come appariva, piuttosto che vederla com’era.

Chissà… Un po’ come nella vita, il libro non offre risposte certe. Di sicuro – almeno a me è successo- sono tanti i momenti in cui si vorrebbe prendere Veda a schiaffoni per provare a toglierle l’arroganza dalla faccia (stiamo leggendo ma la sua faccia ce l’abbiamo davanti chiara come se fosse lì nella stanza). Gli errori di Mildred più che altro portano a scuotere la testa e a pensare “no, ma che fai?! Finirà male!”

In quanto agli altri personaggi, voglio citare soprattutto Bert e Ray. Bert è il primo marito di Mildred, padre delle sue figlie: la tradisce e la perde come moglie, ma non è una cattiva persona e con il tempo si rivela una delle presenze più affidabili nella sua vita. Ray è la figlia minore di Mildred ed è protagonista delle pagine più tristi e commoventi del libro.

Aggiungo che di Mildred Pierce esistono una celebre versione cinematografica, del 1945, con Joan Crawford, e una più recente trasposizione televisa, del 2011, con Kate Winslet ed Evan Rachel Wood.

In sintesi una schietta storia al femminile, ancora incredibilmente attuale dopo quasi ottant’anni dalla pubblicazione, che offre una visione particolare e non edulcorata del rapporto madre-figlia, facendo riflettere sulle insidie emotive e le crudeltà che possono nascondersi in esso.

Traduzione di Maria Napolitano

Edizione: Adelphi

Pagine: 308

Le nostre anime di notte: ovvero come innamorarsi di Holt

Sto parlando di attraversare la notte insieme.

Il colpo di fulmine esiste.

Io l’ho sperimentato con Kent Haruf e questa piccola grande storia. Letta quasi per caso, ma spesso per caso avvengono le cose migliori. Non ero mai stata a Holt, la cittadina statunitense immaginaria dove Haruf ha ambientato il suo mondo letterario… ora è un po’ anche casa mia, uno di quei luoghi in cui, anche se non ci sei nato, fai sempre ritorno volentieri, conosci le sue strade, le sue case, quella quiete che ritrovi solo lì.

Lungo quelle vie mi è capitato di conoscere Addie e Louis. Anziani, entrambi vedovi, con i figli lontani. Non si sono mai frequentati ma lei un giorno si presenta alla sua porta e gli fa una proposta: dormire insieme, farsi compagnia e condividere le lunghe notti tanto difficili per entrambi.

Da quel momento prende il via una delicata e dolce storia di amicizia e di amore. Una connessione, un contatto sincero in un’età in cui la società e gli stereotipi vedono per lo più solo conclusioni e mai nuovi inizi.

Vuoi dell’altra birra?

No, ma se tu vuoi un altro po’ di vino, sto qui con te mentre lo bevi. Ti guardo e basta.

Non tutti lo capiranno, perché come succede spesso, in ciò che non rispecchia i classici standard si finisce col voler vedere qualcosa di sporco e sbagliato, anche se invece è quanto di più bello e giusto al mondo e non fa male a nessuno. Ma quando si osa colorare fuori dai margini c’è sempre chi si arma di gomma per cancellare e pregiudizi.

Credo che le sia giunta voce di noi due. Probabilmente vuole che mi comporti bene.

E tu cosa ne pensi?

Del comportarsi bene? Io mi sto comportando bene. Sto facendo ciò che desidero senza fare del male a nessuno. E spero che sia così anche per te.

Non succede davvero molto in questa storia, apparentemente: ci sono un uomo, una donna, un bambino, un cane. Il vicinato, i parenti. Notti da attraversare, giorni da condividere. Vita, in altre parole. Quindi in realtà in questa storia succede tutto.

Succede la poesia dell’incontro, delle piccole cose. Di quelle emozioni che ci salvano dalla paura, dallo smarrimento, dalla malinconia.

Haruf racconta con una semplicità talmente spoglia e disarmante da diventare grazia. E davvero l’innamoramento per il suo stile, per la sua Holt così vivida e vitale, è inevitabile.

Netflix ha anche prodotto un film tratto da questo libro, con Robert Redford e Jane Fonda. Non l’ho visto e non posso esprimermi in merito. Un po’ mi chiedo quanto dell’atmosfera peculiare della scrittura di Haruf si possa riuscire a tradurre in un film, ma chissà… In ogni caso secondo me bisogna arrivare a Holt prima di tutto via carta, accompagnati dalle immagini della prosa del suo creatore.

Io vi parlerò ancora di Holt e dei suoi abitanti: Kent Haruf purtroppo non c’è più ma le sue storie gli sopravvivono e hanno ancora destini da narrarci.

Ma stiamo andando avanti, non è vero? disse lei Stiamo continuando a parlare. Fin quando potremo. Finché dura.

Edizioni NN Editore

Traduzione di Fabio Cremonesi

Titolo originale Out souls at night

Pagine 171

Le cure domestiche: sulle rive della mente

Questo libro sembra un quadro di Edward Hopper. Lo riesco ad immaginare. Vedo uno scorcio di Fingerbone, una cittadina come ne esistono solo negli angoli sperduti degli USA, e c’è una casetta a due piani, anche quella tipicamente americana, poi un paio di figure femminili. Sullo sfondo un bosco, in distanza un lungo ponte ferroviario e, a dominare tutto, un lago. Anzi, il lago.

È lui il grande protagonista di Le cure domestiche, ghiacciato d’inverno, oscuro e profondo nelle altre stagioni, pronto a inondare le case che si radunano precarie, perennemente instabili, vicino alle sue rive. Misterioso ladro di vite, custode di tanti destini e corpi mai ritrovati. A Ruth, la voce narrante, ha portato via il nonno e la madre, l’uno in un incidente ferroviario divenuto leggenda a Fingerbone, l’altra a causa di un atto suicida.

È uno specchio silenzioso, il lago: riflette notti nerissime, il sole rassicurante, la luna estranea, riflette pensieri, ricettacolo di memorie, dolori, assenze. Riflette il racconto dell’infanzia e adolescenza di Ruth, abbandonata insieme alla sorella Lucille alle cure della nonna, poi di due vecchie zie zitelle, e infine a quelle di Sylvie, sorella della madre. Nessuna figura maschile, nell’esistenza selvatica e solitaria di questa ragazzina dall’anima già vecchia. A parte il ricordo quasi fantastico di quel nonno svanito nel lago insieme a un treno intero, solo donne, donne un po’ alla deriva, come i rami spezzati che galleggiano sull’acqua. E alla deriva è il loro modo di affrontare i giorni, i ricordi, i sentimenti, a volte allontanandosi, come Lucille che, crescendo, cerca una vita diversa, a volte concedendo un affetto apparentemente distratto come quello di Sylvie, eppure capace di rivelarsi forte e tenace quando le circostanze lo portano allo scoperto. Come una notte in barca sul lago nero, costrette a lasciarsi portare dalla corrente, ma pronte anche a spingere sui remi. Come un lungo buio percorso per attraversare il ponte ferroviario, verso una vita senza meta, perché dal lago si fugge soltanto lungo la linea sottile tra sogno e realtà ma poi ti rimarrà dentro, a governare i ritmi vitali con quelli liquidi dei suoi recessi segreti.

Il lago è la mente, con tutti i suoi volti perduti, i momenti, le cose lasciate andare e le cose da ritrovare.

Pubblicato nel 1980, questo romanzo di Marilynne Robinson non è facilmente definibile e non va definito. È come il lago di cui racconta, si affonda nella sua trama e si affonda nelle sue parole. Tenete sempre d’occhio la riva, ma non abbiate paura di scrutare sotto la superficie: forse, chissà, riuscirete a scorgere anche il treno scomparso.

Io non riesco ad assaggiare una tazza d’acqua senza ricordare che l’occhio del lago è quello di mio nonno, e che le acque pesanti, cieche e opprimenti del lago composero gli arti di mia madre, appesantirono i suoi indumenti, bloccarono il suo respiro e bloccarono la sua vista.

Edizioni Einaudi

Traduzione di Delfina Vezzoli

Titolo Originale Housekeeping

Pagine 208

La statua di sale: quando il sogno si rivela illusione

È stato un romanzo scandalo. Con una prosa asciutta, diretta e sincera, nel 1948 Gore Vidal parlò esplicitamente di omosessualità senza alcun fronzolo o edulcorato abbellimento, disvelando all’America tradizionalista e pudicamente girata dall’altra parte il mondo nascosto in cui doveva – e in molti casi deve ancora- muoversi chi aveva un orientamento sessuale diverso dall’unico accettabile che la società concepiva.

Trovo però che il fulcro della storia non riguardi soltanto la sessualità del protagonista, quando piuttosto il suo modo di vivere i sentimenti. Ovvero Jim Willard avrebbe potuto anche essere eterosessuale ma l’equazione non sarebbe cambiata: a volte le nostre emozioni creano convinzioni pericolose, illusioni destinate ad infrangersi contro il muro poco misericordioso della realtà.

Jim si innamora di un suo compagno di scuola, passano una notte d’amore insieme. Jim è solo un ragazzo, un belloccio qualunque con una famiglia di media infelicità e bravo a giocare a tennis. Non sa nemmeno bene lui come definire se stesso ma vede Bob come un suo gemello, l’affinità elettiva della sua vita e anche se le loro strade si dividono, Jim continuerà a coltivare la tenace certezza che si rivedranno e staranno insieme. È solo questione di tempo, tempo che Jim impiega attraversando relazioni varie senza mai darsi davvero o concedere a questi rapporti una possibilità di crescita. Lui sta aspettando fiducioso Bob, cristallizzato nel proprio sogno come la statua di sale del titolo italiano (l’originale è The city and the pillar) che riprende la citazione biblica iniziale: la moglie di Lot che si trasforma in una statua di sale voltandosi indietro. Anche Jim guarda all’indietro, senza mai andare veramente avanti, rivolto a quell’unica notte per lui fondamentale. Per lui soltanto, però. Quando ritroverà Bob, infatti, il suo sogno si sgretolerà miseramente, perché per Bob quella lontana notte non ha avuto lo stesso significato. La morte del sogno di Jim è difficile da leggere: nella prefazione scritta dallo stesso Vidal, si scopre che il finale della prima versione del romanzo era ancora più spietato, ma anche quello attuale è brutale, si sporca di crudeltà gratuita, del veleno dell’umiliazione. Succede quando si è vissuto per una mera illusione.

Un editore disse a Vidal che non sarebbe stato perdonato per questo libro, anche a distanza di vent’anni. Invece ne sono passati settanta e La statua di sale è ancora una storia viva e vivida, che fa riflettere sotto molti punti di vista e soprattutto sottolinea come l’amore sia sempre lo stesso, a prescindere dalla sessualità e dall’epoca, qualcosa di imperscrutabile che può elevarci a immense altezze ma anche mandarci a fondo, specie se si tratta di un’illusione a senso unico.

Io vorrei dei soldi》, disse Jim. 《Almeno abbastanza per poterci vivere》.

Tutto lì? 》.

Beh, c’è un’altra cosa》.

Cioè? 》.

È il mio segreto》. E rise.

Edizione (bellissima!) Fazi Editore

Traduzione di Alessandra Osti

Titolo originale The City and the Pillar

Pagine 227