Si deve sognare. Povero colui che non sogna, poiché non vedrà mai la luce…

Agosto è il mese in cui il genio del grande Federico Garcia Lorca è stato spento. Come si spegne una stella troppo brillante e bella. Il giorno preciso non si conosce, gli studiosi restano tuttora indecisi tra il 17, il 18 e il 19. Poco importa, alla fine. La vita di Federico si è fermata alle prime luci di un’alba d’estate del 1936, pare vicino a un vecchio ulivo nei pressi della Fuente Grande, l’antica Ainadamar o Fontana delle lacrime, a poca distanza da Viznar.

Gabriele Morelli lo racconta nell’ultimo capitolo della bella biografia dedicata al poeta e drammaturgo andaluso. Pagine che non si vorrebbero leggere, che fanno male. Soprattutto dopo averne percorso la breve, tormentata esistenza, ricostruita con scrupoloso rispetto da Morelli, attraverso carteggi epistolari, diari e aneddoti di Federico stesso e delle persone vissute accanto a lui.

《Il mio giardino è il giardino delle possibilità, il giardino di ciò che non è, ma avrebbe potuto (e talora) avrebbe dovuto essere, il giardino delle teorie che passarono senza essere viste e dei bambini che non sono nati》

Così scriveva Federico nel 1923 ad un paio di amici. Controverso, fragile Federico, che dietro la facciata carismatica e brillante, celava un carattere complesso e drammatico, l’ossessione della paura della morte e tormenti interiori legati alla sua vita sentimentale e al suo bisogno di amore.

Ana Maria Dalì (sorella del grande Salvador, che fu legato a Lorca da un appassionato e conflittuale rapporto di amicizia e forse non solo) racconta di come, quando Federico cantava, suonava o recitava poesie, “la bocca e gli occhi splendevano in modo così straordinario che era impossibile restare indifferenti al magnetismo che emanava la sua persona. La sua voce era di un incanto particolare e la sua presenza, così come fa il cigno nel lago, illuminava quanto era intorno”.

Tanti, da Pablo Neruda a Bunuel sottolineano la grande forza di attrazione che esercitava. Significativo però ciò che scrive il poeta sivigliano Vicente Aleixandre: “(…) andava e veniva davanti ai suoi amici con qualcosa del genio alato che dispensa grazia, che rende felice un momento e poi fugge come fa la luce. (…) io amo a volte ricordare in solitudine un altro Federico, un’immagine che non tutti hanno visto: il nobile Federico della tristezza, l’uomo della solitudine e della passione che all’apice della sua vita di successo difficilmente si poteva indovinare. (…) Il suo cuore non era certo felice. (…) Amò molto, qualità che alcune persone superficiali non gli vollero riconoscere. E soffrì per amore, ciò che probabilmente nessuno seppe.

La biografia studia con cura tutto il percorso artistico di Lorca, da quello poetico a quello drammaturgico. In particolare ho amato l’approfondimento della passione che Federico nutriva per il teatro. La Barraca, la compagnia itinerante con cui girò la Spagna portando l’arte teatrale ai contadini e alla gente semplice dei piccoli villaggi, rappresenta ancora oggi un esempio di genuino amore per questa forma artistica e l’impegno entusiasta nel condividerla.

La Barraca è per me tutta la mia opera, l’opera che mi interessa, che mi esalta ancor più della mia opera letteraria, poiché per essa ho molte volte trascurato di scrivere un verso o di concludere una commedia (…) per lanciarmi attraverso le terre di Spagna, in una di queste stupende peregrinazioni del “mio teatro”.

Le rappresentazioni della Barraca erano sempre gratuite e i componenti della compagnia, in genere studenti universitari, lavoravano gratis.

Qui non esistono né primi né secondi attori; non si ammettono divi.

Lorca viaggiava e lavorava con i suoi ragazzi vestito di una semplice tuta da operaio. Metteva tutto se stesso nell’impresa, curando regia, scenografie, musiche, ogni aspetto degli allestimenti. Con l’intima soddisfazione di ricevere in cambio grandi emozioni, come illustra questo suo prezioso ricordo di una sera di pioggia.

Ricordo di aver vissuto ad Almazan una delle emozioni più intense della mia vita. Rappresentavamo all’aperto “La vida es sueño”. Cominciò a piovere. Si udiva solo il rumore della pioggia che cadeva sul palco, i versi di Calderon e la musica che li accompagnava, e tutt’intorno l’emozione dei contadini.

Una biografia, quindi, quella firmata da Morelli, che ricostruisce l’artista mostrandone anche i conflitti di uomo e la straordinaria sensibilità, che lo ha fatto vivere in maniera tanto viscerale e profonda. Il racconto necessario di una vita e di un destino, per poterne comprendere appieno le luci e le ombre, il genio, il crudele assassinio. Per non dimenticare, si potrebbe aggiungere, ma Federico Garcia Lorca è impossibile da scordare.

E se la morte è la morte che ne sarà dei poeti e delle cose addormentate che nessuno più ricorda?

Federico dorme ma il suo fuoco creativo seguita a bruciare in ogni emozione che le sue parole sanno trasmettere, in ogni sogno che alimentano e accendono.

Come sta scritto su una stele di pietra lungo la strada per Alcafar, là dove da qualche parte ancora giacciono mai trovate le sue spoglie, Lorca eran todos.

Lorca era tutti.

Tutti gli uomini uccisi durante la guerra civile. Tutti coloro che sono sepolti con lui a Viznar.

Federico è nella polvere, nell’erba, nel vento, nella pioggia.

Voglio dormire un momento,/ un momento, un minuto, un secolo;/ ma tutti sappiamo che non sono morto;/ che c’è una stalla d’oro sulle mie labbra;/ che sono il piccolo amico del vento dell’Ovest;/ che sono l’ombra immensa delle mie lacrime

Federico È tutti. Anche ora. Adesso. È tutti noi che aspiriamo al sogno.

Edizioni Salerno Editrice

Pagine 315

Versi tratti dai poemi Cancion otonal e Gacela de la muerte oscura

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